Che cosa accade quando il personaggio di un romanzo fugge? Una risposta soddisfacente ci viene dal libro di Queneau, Icaro involato (Le vol d’Icare, 1968). Un romanzo che si presenta, nell’impostazione delle parti dialogate, come un’opera teatrale ma così, evidentemente, non è. I dialoghi, strutturati in tal modo, conferiscono al libro un andamento molto rapido atto a creare un effetto ‘botta e risposta’ che bene si adegua alla volontà parodica e satirica che il romanzo, tra gli altri intenti, si prefigge. Icaro, il protagonista del mediocre e abbozzato romanzo di Hubert, fugge dal suo romanzo, s’invola per dirla col titolo italiano. Cosa fare se non affidarsi, per suggerimento d’un altro amico scrittore, ad un investigatore privato protagonista di vari romanzi?
Da queste poche righe è evidente uno degli elementi fortemente caratterizzanti del romanzo di Queneau, ovvero, per richiamare le Figure di Gérard Genette, la metalessi narrativa. Il lettore si trova di fronte ad uno di quegli strani casi letterari in cui i due piani della diegesi si confondono e, nel caso di Icaro involato, si sovrappongono.
Nell’opera di Queneau due sono i piani: in uno – in cui è evidente anche la spiccata componente metaletteraria – si muovono i protagonisti del libro, della “realtà”, ovvero i mediocri scrittori oggetto della satira dello scrittore francese, e sull’altro, quello fittizio dei libri da loro prodotti, proliferano i personaggi della fantasia. I due piani però, come ho anticipato, si confondono, e i personaggi, quei fantasmi sul cui statuto si è tanto discusso nella teoria della letteratura, scavalcano quella linea di confine che li separa dal “reale”. Da word-masses, per dirla con Edward Morgan Forster, si tramutano in carne, ossa e volontà di costruire il proprio destino.
«Tutto ciò è pirandelliano» afferma Morcol, l’investigatore ingaggiato per il ritrovamento di Icaro, senza essere (ovviamente!) compreso dallo scrittore Hubert che lo ascolta. La componente iperletteraria aleggia su tutto il romanzo; dal rimando a Pirandello al nome dei due scrittori Jean e Jacques – che richiamano il più noto Jean-Jacques Rosseau – ed altri ancora disseminati nelle varie pagine del libro. E inoltre a giganteggiare c’è l’aspetto parodico che si realizza non solo, come si è già detto, nelle figure degli scrittori i cui dialoghi sfociano spesso nel ridicolo, ma anche da un punto di vista propriamente linguistico e retorico, con quel gusto, tipico di Queneau (cito per darne conoscenza l’OuLiPo), per i giochi di parole e per gli esperimenti linguistici.
cfr. https://www.fareletteratura.it/chi-siamo/
Sempre in Icaro Involato troviamo un triello precursore di quello - famosissimo - di Sergio Leone
Soprattutto noi cattolici siamo abituati al trinitario (non dico al monoteismo o ai trinomi e ai trielli), ma sembra strano rinvenire nel web dell'attuale governo la diffusione del "sistema duale". Che non solo evoca i 2 milioni di euro stanziati dalla nostra regione per
"PREVENIRE E CONTRASTARE I FENOMENI DI ABBANDONO E DISPERSIONE SCOLASTICA", ma pure per sottolineare cheSi tratta di percorsi formativi, destinati ai giovani di età dai 14 ai 25 anni, che alternano la formazione in aula all’apprendimento nei contesti di lavoro.
Col prof. Gambarara siamo passati in poco tempo dal bipede
Il tripode (in greco antico: τρίπος, trípos, da τρεῖς = tre e ποδ-, radice di
πούς = piede) era nell'antica Grecia un recipiente a tre piedi che si
poneva ...
Jacques Lacan ha posto la questione del termine dell’analisi e della formazione degli analisti come centrale nella sua elaborazione, considerandola come la questione essenziale per l’esistenza del discorso analitico. Rifiutando ogni soluzione burocratica, che implicherebbe poter sapere in anticipo che cosa sia un analista attraverso una serie di qualità, caratteristiche e attributi che ne garantirebbero la qualifica, ha scelto di percorrere un’altra via.
Nel 1967 ha proposto alla sua Scuola la procedura della passe, procedura che è direttamente in relazione con il suo noto enunciato: “Lo psicoanalista si autorizza soltanto da sé”. Se questo enunciato indica che la qualifica di psicoanalista non si dà per cooptazione, tuttavia non indica affatto che chiunque possa dirsi analista a proprio piacimento. Occorre infatti che dell’analista ci sia, affinché si dia dell’autorizzarsi. (...) La logica che Lacan propone con la sua passe è dunque la logica dell’atto analitico, di cui la passe stessa è paradigma. Come dice Éric Laurent: “Un analista è prima di tutto un soggetto che sostiene un performativo. È quello che innanzitutto ha dichiarato ‘io ho terminato la mia analisi’, frase assai inverosimile da sostenere. È sicuro? È per questo che una volta che ciò viene detto, una volta che viene proferito, occorre sostenere questo performativo davanti a qualcun altro che ci è passato”.
Il passant incontrerà dunque due passeur, indicati o estratti a sorte da una lista di analizzanti, scelti a partire dal fatto di essere essi stessi in un momento di passe nella loro analisi, che ne ascolteranno la testimonianza. Un cartello della passe incontrerà successivamente i due passeur, che trasmetteranno la testimonianza che hanno ascoltato. Sarà il cartello della passe, grazie alla testimonianza indiretta che avrà ricevuto, a valutare se in quello che ha inteso ha potuto trasmettersi il termine dell’analisi e del desiderio dell’analista. In caso affermativo, il passant riceve la nomina di AE (Analyste de l’École – Analista della Scuola), nomina che ha la durata di tre anni, durante i quali l’AE avrà la funzione di trasmettere alla Scuola e anche al di là di essa, un insegnamento che, partendo dalla singolarità della propria esperienza, illumini e reinventi i punti cruciali della psicoanalisi.
E' dunque la logica dell’atto analitico che conduce il prof. Mauro Francesco Minervino - ancora una volta un tripode - a "accogliere il reale, il reale nuovo, il reale che è la produzione del discorso della scienza, che non ha più niente a che vedere con la natura" (Jacques-Alain Miller) e il dottor Alfonso Bombini a cifrare "reale senza reality".
Si tratta dunque di una domanda che il passant rivolge alla Scuola, domanda sostenuta da un transfert non più rivolto al proprio analista, che ha sostenuto il percorso analitico fino a quel punto, ma che si produce in una torsione e che si rivolge ora al collettivo analitico.
Un cartello della passe incontrerà successivamente i due passeur, che trasmetteranno la testimonianza che hanno ascoltato. Sarà il cartello della passe, grazie alla testimonianza indiretta che avrà ricevuto, a valutare se in quello che ha inteso ha potuto trasmettersi il termine dell’analisi e del desiderio dell’analista. In caso affermativo, il passant riceverà la nomina di
“Il diritto ottiene il passaporto del sacro”, scrive Pierre
Legendre, in Godere del potere. Trattato
sulla burocrazia patriota, Marsilio, 1977. La credenza istituzionale, per
quel che riesce a tenere insieme, ha qualcosa d’incredibile. La cosa ha del ridicolo. Ognuno infatti crede a questo
incredibile e ciò basta affinché ciascuno continui a crederci. L’istituzione è
innamorata dei propri cadaveri e li produce tali per innamorarsene. “Se non la
smetti ti cucio la bocca”: metafora illuminante del principio secondo cui
occorre impedire che un morto parli: siccome un cadavere non risuscita se non
rispondendo quando viene chiamato per nome, è importante impedirglielo. Perciò
talvolta gli si chiude la bocca. [1]
Cfr. Erich Fromm, Anatomia della distruttività umana. Cap.
11: Aggressione maligna. Crudeltà e distruttività.- Distruttività apparente.-
Forme spontanee (: La documentazione storica; Distruttività vendicativa;
Distruttività estatica; Idolatria della distruttività; Kern von Salomon: un
caso clinico di idolatria della distruzione).- Il carattere distruttivo: il
sadismo (: Esempi di sadismo-masochismo sessuali; Giuseppe Stalin: un caso
clinico di sadismo non-sessuale; La natura del sadismo; Le condizioni che
generano il sadismo; Heinrich Himmler: un caso clinico di sadismo
anale-accumulatore). Cap. 12: L'aggressione maligna: la necrofilia. - Il
concetto tradizionale.- Il carattere necrofilo (: Sogni necrofili; Azioni
necrofile «involontarie»; Il linguaggio necrofilo; Il nesso fra la necrofilia e
il culto della tecnica).- Ipotesi sull'incesto e sul complesso di Edipo.- Il
rapporto fra gli istinti di vita e di morte freudiani con biofilia e
necrofilia. - Princìpi clinici/metodologici. Cap. 13: Aggressione maligna:
Adolf Hitler, un caso clinico di necrofilia. Osservazioni preliminari.- La famiglia di
Hitler e i primi anni (: Klara Hitler; Alois Hitler; Dall'infanzia all'età di 6
anni (1889-1895); L'infanzia dai 6 agli 11 anni (1895-1900); Pre-adolescenza e adolescenza:
dagli 11 ai 17 anni (1900-1906); Vienna (1907-1913); Monaco).- Un commento
sulla metodologia.- La distruttività di Hitler(: Repressione della
distruttività).- Altri aspetti della personalità di Hitler (: I rapporti con le
donne; Attitudini e doti naturali; Vernice; Mancanza di volontà e di realismo).
Epilogo: Sull'ambiguità della speranza.
Questo è l’indice del primo volume di un'opera complessiva
sulla teoria psicoanalitica. Ho cominciato con lo studio dell'aggressione e
della distruttività, perché, oltre ad essere uno dei problemi teorici fondamentali
della psicoanalisi, è anche uno dei più rilevanti sul piano pratico, come
dimostra l'ondata di distruttività che sommerge il mondo. Quando mi accinsi a
scrivere questo libro, oltre sei anni fa, sottovalutavo moltissimo le
difficoltà che avrei incontrato. Ma ben presto mi accorsi che non era possibile
studiare a fondo il problema della distruttività umana rimanendo entro i limiti
del mio settore di competenza specifica, ossia quello della psicoanalisi. Per
quanto il mio studio fosse essenzialmente di indirizzo psicoanalitico, avevo bisogno
di una certa conoscenza di altre discipline, particolarmente della
neurofisiologia, della psicologia animale, della paleontologia e dell'antropologia,
per evitare di lavorare secondo uno schema di riferimento troppo limitato, e
quindi anche fuorviante.
"Le generazioni peggiorano sempre più. Verrà un tempo
in cui saranno talmente maligne da adorare il potere; il potere equivarrà a
diritto per loro, e sparirà il rispetto per la buona volontà. Infine, quando l'uomo
non sarà più capace di indignarsi per le ingiustizie o di vergognarsi in
presenza della meschinità, Zeus lo distruggerà. Eppure, persino allora, ci
sarebbe una speranza, se soltanto la gente comune insorgesse e rovesciasse i
tiranni che la opprimono".
Mito Greco sull'Età del Ferro.
Il successo e la popolarità delle idee di Lorenz ricevettero
un grande impulso con la diffusione dell'opera, redatta precedentemente, di un autore
di formazione molto diversa, Robert Ardrey ("African Genesis", New
York 1961 (1-A) e "The Territorial Imperative" e, New York 1961).
Ardrey, che non è uno scienziato, ma un drammaturgo di valore, ricompose
diversi dati sull'alba dell'umanità in un messaggio eloquente, anche se molto
prevenuto, che doveva dimostrare che l'aggressività dell'uomo è innata. Alle
sue opere seguirono quelle di altri studiosi di etologia, "The Naked
Ape" (New York 1967) (1-B) di Desmond Morris e "Liebe und Hass"
(Monaco 1970) (1-C) del discepolo di Lorenz, I. Eibl-Eibesfeldt.
A esprimere in forma letteraria lo spirito della necrofilia
nel suo "Manifesto futurista" del 1909. La stessa tendenza emerge in
gran parte dell'arte e della letteratura degli ultimi decenni, ostentatamente
affascinata da tutto ciò che è putrefatto, non-vivo, distruttivo e meccanico.
Il motto falangista «viva la muerte» minaccia di diventare il principio segreto
di una società in cui la conquista della natura ad opera delle macchine
costituisce il significato stesso di progresso, e in cui la persona umana diventa
un'appendice della macchina. Questo studio tenta di chiarire la natura della
passione necrofila e le condizioni sociali che tendono a incoraggiarla. La
conclusione sarà che un rimedio in senso lato potrà prodursi soltanto
attraverso cambiamenti radicali nella nostra struttura politica e sociale, tali
da reintegrare l'uomo nel suo ruolo supremo all'interno della società. Il motto
«legge e ordine» (piuttosto che vita e struttura), la richiesta di punizioni
più severe contro i criminali, come l'ossessione per la violenza e la
distruzione che caratterizzano certi «rivoluzionari», sono soltanto ulteriori
esempi della potente attrazione che la necrofilia esercita sul mondo
contemporaneo. Abbiamo bisogno di creare le condizioni adatte perché la
crescita dell'uomo, questo essere imperfetto, incompleto - unico nella natura –
diventi l'obiettivo supremo di tutti gli ordinamenti sociali. La libertà genuina,
l'indipendenza, la fine di ogni forma di controllo e di sfruttamento sono le
premesse indispensabili per mobilitare l'amore per la vita, l'unica forza che
possa sconfiggere l'amore per la morte.
Lorenz si spinge persino oltre con queste analogie fra
comportamento animale (o l'interpretazione che egli ne fornisce) e i suoi
concetti ingenui sul comportamento umano, come in questa dichiarazione
sull'amore e l'odio negli uomini: «Un vincolo personale, un'amicizia
individuale si trovano "soltanto" negli animali con un'aggressione
intra-specifica altamente sviluppata, anzi, questo vincolo è tanto più saldo quanto
più aggressiva è la rispettiva specie animale». (K. Lorenz, Milano 1969.)
Finora niente da obiettare; prendiamo pure per buone le osservazioni di Lorenz.
Ma, a questo punto, egli salta al regno della psicologia umana; dopo aver
dichiarato che l'aggressione intraspecifica ha milioni di anni di vita in più
rispetto all'amicizia personale e all'amore, ne conclude che «"non c'è
amore senza aggressione"». (K. Lorenz, Milano 1969. Il corsivo è mio.)
Questa dichiarazione alata, non sostenuta da alcuna prova per quanto riguarda
l'amore umano, ma contraddetta dalla maggioranza dei fatti osservabili, è
completata da un'altra dichiarazione che non riguarda l'aggressione
intraspecifica, ma «"l'odioso fratello minore del grande amore"»,
l'odio: «Diversamente dall'aggressione comune, esso è diretto contro un
individuo, proprio come l'amore, e probabilmente "esso ha come presupposto
la sua presenza": uno può veramente odiare soltanto quando ha molto amato
e ama ancora, anche se lo nega». (K. Lorenz, Milano 1969. Il corsivo è mio.) E'
un luogo comune che l'amore spesso si trasformi in odio, anche se sarebbe più
esatto dire che non è l'amore a subire questa trasformazione, ma il narcisismo
ferito della persona che ama, e cioè che è il non-amore a causare l'odio.
Pretendere invece che si possa odiare soltanto se si è amato, trasforma
l'elemento di verità contenuto nella dichiarazione in una vera e propria
assurdità. Si può forse affermare che l'oppresso odia il suo oppressore, che la
madre odia l'assassino di suo figlio, che il torturato odia il suo aguzzino
perché una volta l'amavano o l'amano ancora? Un'altra analogia viene ricavata
dal fenomeno dell'«"entusiasmo militante"»: «E' una forma
specializzata di aggressione di gruppo, chiaramente distinta, eppure connessa
funzionalmente alle forme più primitive di aggressione individuale di
importanza secondaria». (K. Lorenz, New York 1966.) E' una «sacra usanza», che
deve la sua forza di motivazione a schemi di comportamento evolutisi
filogeneticamente. Lorenz asserisce che «non c'è da dubitare che l'entusiasmo
umano militante si sia evoluto da una reazione difensiva di gruppo dei nostri
antenati pre-umani». (K. Lorenz, New York 1966.) E' l'entusiasmo condiviso dal
gruppo che si difende contro un nemico comune. "Ogni uomo sufficientemente
emotivo conosce l'esperienza soggettiva che procede di pari passo con la
reazione in questione. Consiste in prima linea nella qualità della sensazione
nota come entusiasmo; inoltre un «sacro» brivido corre lungo la schiena, e,
come si constata ad una più precisa osservazione, anche lungo il lato esterno
delle braccia, ci si sente strappati da tutti i legami del mondo ordinario,
innalzati, pronti a piantare e lasciar tutto per seguire il richiamo del sacro
dovere. Tutti gli ostacoli che si frappongono al suo raggiungimento perdono
significato e importanza, le inibizioni istintive a danneggiare e uccidere i
compagni di specie perdono disgraziatamente molto del loro potere.
Considerazioni razionali, ogni critica e ragioni contrarie, che parlano contro
il comportamento dettato dal travolgente entusiasmo, vengono messe a tacere dal
fatto che una curiosa inversione di tutti i valori le fa apparire non soltanto
insostenibili, ma addirittura basse e infamanti. L'uomo può provare un senso di
assoluta integrità anche a commettere atrocità. Il pensiero concettuale e la
responsabilità morale sono al livello più basso del loro declino. In breve,
come dice meravigliosamente un proverbio ucraino: «Quando sventola la bandiera,
la ragione è nella tromba»". (K. Lorenz, Milano 1969.)
Tutte le biografie di Vladimir Putin contengono un aneddoto
della sua infanzia che ben descrive il personaggio. Da bambino viveva in uno
degli squallidi complessi di case popolari disseminati nell’Unione Sovietica e
nell’Est Europa. Tra i pochi divertimenti c’era la caccia ai topi che
infestavano gli edifici. Il bambino Putin era particolarmente bravo a
catturarli perché aveva capito come funzionava la loro psicologia quando
percepivano di essere una preda. Nei ricordi di quegli anni c’è la caccia al ratto,
al topo grosso, l’incontrastato topo alfa. La cosa da non fare per catturarlo,
racconta Putin, è metterlo all’angolo perché nel momento in cui percepisce di
non avere più via d’uscita, il ratto ti si rivolta contro e ti attacca.
Freud, dal canto suo, non si occupò principalmente delle
psicosi, ma sostenne che condividevano con le nevrosi funzioni e meccanismi
fondamentali. La psicosi allucinatoria è originata da idee intollerabili che,
rifiutate dall’Io, riemergono tendendo al soddisfacimento “allucinatorio” del
desiderio.
Freud sosteneva che per i nevrotici il meccanismo difensivo
centrale fosse la "rimozione”, cioè la repulsione da parte dell’Io o del
Super-Io di rappresentazioni incompatibili con le proprie esigenze. Mentre per
le psicosi introdusse, nel 1896, il meccanismo della “proiezione” intesa come
misconoscimento della realtà interna, operazione attraverso cui il soggetto
localizza fuori di sé, in persone o cose, ciò che rifiuta o non riconosce come
proprio.
(…) Il delirio paranoico è il fallimento del resistere alla
resistenza. Tratteggiata dalla psichiatria dei primi del novecento come la
caricatura deficitaria della “normalità”, la paranoia non fa che sottolineare i
paradossi della “personalità realizzata”. Lacan giunge a dire che la paranoia
non ha nessun rapporto con la personalità in quanto sono la stessa cosa. (…)
Successivamente la psichiatria ha definito la paranoia una forma particolare di
quel quadro clinico che Eugen Bleuler faceva derivare da una scissura (Spaltung) patologica del pensiero: la
schizofrenia. Da questa considerazione possiamo cogliere come la paranoia sia
estromessa dalla nosografia psichiatrica in quanto viene assimilata alla “normalità”
che Lacan, non senza umorismo, definisce una psicosi “ben riuscita”.
[1] A. Métraux, il Vodu haitiano, Einaudi, 1971, p.283
Giancarlo Ricci, L’amore
del tiranno. Psicanalisi e istituzione, Marsilio, 1978
“Il diritto ottiene
il passaporto del sacro”, scrive Pierre Legendre, in Godere del potere. Trattato sulla burocrazia patriota, Marsilio,
1977. La credenza istituzionale, per quel che riesce a tenere insieme, ha
qualcosa d’incredibile. La cosa ha
del ridicolo. Ognuno infatti crede a questo incredibile e ciò basta affinché
ciascuno continui a crederci. L’istituzione è innamorata dei propri cadaveri e
li produce tali per innamorarsene. “Se non la smetti ti cucio la bocca”:
metafora illuminante del principio secondo cui occorre impedire che un morto
parli: siccome un cadavere non risuscita se non rispondendo quando viene
chiamato per nome, è importante impedirglielo. Perciò talvolta gli si chiude la
bocca. [1]
Cfr. Erich Fromm, Anatomia della distruttività umana. Cap.
11: Aggressione maligna. Crudeltà e distruttività.- Distruttività apparente.-
Forme spontanee (: La documentazione storica; Distruttività vendicativa;
Distruttività estatica; Idolatria della distruttività; Kern von Salomon: un
caso clinico di idolatria della distruzione).- Il carattere distruttivo: il
sadismo (: Esempi di sadismo-masochismo sessuali; Giuseppe Stalin: un caso
clinico di sadismo non-sessuale; La natura del sadismo; Le condizioni che
generano il sadismo; Heinrich Himmler: un caso clinico di sadismo
anale-accumulatore). Cap. 12: L'aggressione maligna: la necrofilia. - Il
concetto tradizionale.- Il carattere necrofilo (: Sogni necrofili; Azioni
necrofile «involontarie»; Il linguaggio necrofilo; Il nesso fra la necrofilia e
il culto della tecnica).- Ipotesi sull'incesto e sul complesso di Edipo.- Il
rapporto fra gli istinti di vita e di morte freudiani con biofilia e
necrofilia. - Princìpi clinici/metodologici. Cap. 13: Aggressione maligna:
Adolf Hitler, un caso clinico di necrofilia. Osservazioni preliminari.- La famiglia di
Hitler e i primi anni (: Klara Hitler; Alois Hitler; Dall'infanzia all'età di 6
anni (1889-1895); L'infanzia dai 6 agli 11 anni (1895-1900); Pre-adolescenza e adolescenza:
dagli 11 ai 17 anni (1900-1906); Vienna (1907-1913); Monaco).- Un commento
sulla metodologia.- La distruttività di Hitler(: Repressione della
distruttività).- Altri aspetti della personalità di Hitler (: I rapporti con le
donne; Attitudini e doti naturali; Vernice; Mancanza di volontà e di realismo).
Epilogo: Sull'ambiguità della speranza.
Questo è l’indice del primo volume di un'opera complessiva
sulla teoria psicoanalitica. Ho cominciato con lo studio dell'aggressione e
della distruttività, perché, oltre ad essere uno dei problemi teorici fondamentali
della psicoanalisi, è anche uno dei più rilevanti sul piano pratico, come
dimostra l'ondata di distruttività che sommerge il mondo. Quando mi accinsi a
scrivere questo libro, oltre sei anni fa, sottovalutavo moltissimo le
difficoltà che avrei incontrato. Ma ben presto mi accorsi che non era possibile
studiare a fondo il problema della distruttività umana rimanendo entro i limiti
del mio settore di competenza specifica, ossia quello della psicoanalisi. Per
quanto il mio studio fosse essenzialmente di indirizzo psicoanalitico, avevo bisogno
di una certa conoscenza di altre discipline, particolarmente della
neurofisiologia, della psicologia animale, della paleontologia e dell'antropologia,
per evitare di lavorare secondo uno schema di riferimento troppo limitato, e
quindi anche fuorviante.
"Le generazioni peggiorano sempre più. Verrà un tempo
in cui saranno talmente maligne da adorare il potere; il potere equivarrà a
diritto per loro, e sparirà il rispetto per la buona volontà. Infine, quando l'uomo
non sarà più capace di indignarsi per le ingiustizie o di vergognarsi in
presenza della meschinità, Zeus lo distruggerà. Eppure, persino allora, ci
sarebbe una speranza, se soltanto la gente comune insorgesse e rovesciasse i
tiranni che la opprimono".
Mito Greco sull'Età del Ferro.
(Citato da Erich Fromm, "Anatomia della distruttività umana")
Il successo e la popolarità delle idee di Lorenz ricevettero
un grande impulso con la diffusione dell'opera, redatta precedentemente, di un autore
di formazione molto diversa, Robert Ardrey ("African Genesis", New
York 1961 (1-A) e "The Territorial Imperative" e, New York 1961).
Ardrey, che non è uno scienziato, ma un drammaturgo di valore, ricompose
diversi dati sull'alba dell'umanità in un messaggio eloquente, anche se molto
prevenuto, che doveva dimostrare che l'aggressività dell'uomo è innata. Alle
sue opere seguirono quelle di altri studiosi di etologia, "The Naked
Ape" (New York 1967) (1-B) di Desmond Morris e "Liebe und Hass"
(Monaco 1970) (1-C) del discepolo di Lorenz, I. Eibl-Eibesfeldt.
A esprimere in forma letteraria lo spirito della necrofilia
nel suo "Manifesto futurista" del 1909. La stessa tendenza emerge in
gran parte dell'arte e della letteratura degli ultimi decenni, ostentatamente
affascinata da tutto ciò che è putrefatto, non-vivo, distruttivo e meccanico.
Il motto falangista «viva la muerte» minaccia di diventare il principio segreto
di una società in cui la conquista della natura ad opera delle macchine
costituisce il significato stesso di progresso, e in cui la persona umana diventa
un'appendice della macchina. Questo studio tenta di chiarire la natura della
passione necrofila e le condizioni sociali che tendono a incoraggiarla. La
conclusione sarà che un rimedio in senso lato potrà prodursi soltanto
attraverso cambiamenti radicali nella nostra struttura politica e sociale, tali
da reintegrare l'uomo nel suo ruolo supremo all'interno della società. Il motto
«legge e ordine» (piuttosto che vita e struttura), la richiesta di punizioni
più severe contro i criminali, come l'ossessione per la violenza e la
distruzione che caratterizzano certi «rivoluzionari», sono soltanto ulteriori
esempi della potente attrazione che la necrofilia esercita sul mondo
contemporaneo. Abbiamo bisogno di creare le condizioni adatte perché la
crescita dell'uomo, questo essere imperfetto, incompleto - unico nella natura –
diventi l'obiettivo supremo di tutti gli ordinamenti sociali. La libertà genuina,
l'indipendenza, la fine di ogni forma di controllo e di sfruttamento sono le
premesse indispensabili per mobilitare l'amore per la vita, l'unica forza che
possa sconfiggere l'amore per la morte.
Lorenz si spinge persino oltre con queste analogie fra
comportamento animale (o l'interpretazione che egli ne fornisce) e i suoi
concetti ingenui sul comportamento umano, come in questa dichiarazione
sull'amore e l'odio negli uomini: «Un vincolo personale, un'amicizia
individuale si trovano "soltanto" negli animali con un'aggressione
intra-specifica altamente sviluppata, anzi, questo vincolo è tanto più saldo quanto
più aggressiva è la rispettiva specie animale». (K. Lorenz, Milano 1969.)
Finora niente da obiettare; prendiamo pure per buone le osservazioni di Lorenz.
Ma, a questo punto, egli salta al regno della psicologia umana; dopo aver
dichiarato che l'aggressione intraspecifica ha milioni di anni di vita in più
rispetto all'amicizia personale e all'amore, ne conclude che «"non c'è
amore senza aggressione"». (K. Lorenz, Milano 1969. Il corsivo è mio.)
Questa dichiarazione alata, non sostenuta da alcuna prova per quanto riguarda
l'amore umano, ma contraddetta dalla maggioranza dei fatti osservabili, è
completata da un'altra dichiarazione che non riguarda l'aggressione
intraspecifica, ma «"l'odioso fratello minore del grande amore"»,
l'odio: «Diversamente dall'aggressione comune, esso è diretto contro un
individuo, proprio come l'amore, e probabilmente "esso ha come presupposto
la sua presenza": uno può veramente odiare soltanto quando ha molto amato
e ama ancora, anche se lo nega». (K. Lorenz, Milano 1969. Il corsivo è mio.) E'
un luogo comune che l'amore spesso si trasformi in odio, anche se sarebbe più
esatto dire che non è l'amore a subire questa trasformazione, ma il narcisismo
ferito della persona che ama, e cioè che è il non-amore a causare l'odio.
Pretendere invece che si possa odiare soltanto se si è amato, trasforma
l'elemento di verità contenuto nella dichiarazione in una vera e propria
assurdità. Si può forse affermare che l'oppresso odia il suo oppressore, che la
madre odia l'assassino di suo figlio, che il torturato odia il suo aguzzino
perché una volta l'amavano o l'amano ancora? Un'altra analogia viene ricavata
dal fenomeno dell'«"entusiasmo militante"»: «E' una forma
specializzata di aggressione di gruppo, chiaramente distinta, eppure connessa
funzionalmente alle forme più primitive di aggressione individuale di
importanza secondaria». (K. Lorenz, New York 1966.) E' una «sacra usanza», che
deve la sua forza di motivazione a schemi di comportamento evolutisi
filogeneticamente. Lorenz asserisce che «non c'è da dubitare che l'entusiasmo
umano militante si sia evoluto da una reazione difensiva di gruppo dei nostri
antenati pre-umani». (K. Lorenz, New York 1966.) E' l'entusiasmo condiviso dal
gruppo che si difende contro un nemico comune. "Ogni uomo sufficientemente
emotivo conosce l'esperienza soggettiva che procede di pari passo con la
reazione in questione. Consiste in prima linea nella qualità della sensazione
nota come entusiasmo; inoltre un «sacro» brivido corre lungo la schiena, e,
come si constata ad una più precisa osservazione, anche lungo il lato esterno
delle braccia, ci si sente strappati da tutti i legami del mondo ordinario,
innalzati, pronti a piantare e lasciar tutto per seguire il richiamo del sacro
dovere. Tutti gli ostacoli che si frappongono al suo raggiungimento perdono
significato e importanza, le inibizioni istintive a danneggiare e uccidere i
compagni di specie perdono disgraziatamente molto del loro potere.
Considerazioni razionali, ogni critica e ragioni contrarie, che parlano contro
il comportamento dettato dal travolgente entusiasmo, vengono messe a tacere dal
fatto che una curiosa inversione di tutti i valori le fa apparire non soltanto
insostenibili, ma addirittura basse e infamanti. L'uomo può provare un senso di
assoluta integrità anche a commettere atrocità. Il pensiero concettuale e la
responsabilità morale sono al livello più basso del loro declino. In breve,
come dice meravigliosamente un proverbio ucraino: «Quando sventola la bandiera,
la ragione è nella tromba»". (K. Lorenz, Milano 1969.)
Tutte le biografie di Vladimir Putin contengono un aneddoto
della sua infanzia che ben descrive il personaggio. Da bambino viveva in uno
degli squallidi complessi di case popolari disseminati nell’Unione Sovietica e
nell’Est Europa. Tra i pochi divertimenti c’era la caccia ai topi che
infestavano gli edifici. Il bambino Putin era particolarmente bravo a
catturarli perché aveva capito come funzionava la loro psicologia quando
percepivano di essere una preda. Nei ricordi di quegli anni c’è la caccia al ratto,
al topo grosso, l’incontrastato topo alfa. La cosa da non fare per catturarlo,
racconta Putin, è metterlo all’angolo perché nel momento in cui percepisce di
non avere più via d’uscita, il ratto ti si rivolta contro e ti attacca.
Freud, dal canto suo, non si occupò principalmente delle
psicosi, ma sostenne che condividevano con le nevrosi funzioni e meccanismi
fondamentali. La psicosi allucinatoria è originata da idee intollerabili che,
rifiutate dall’Io, riemergono tendendo al soddisfacimento “allucinatorio” del
desiderio.
Freud sosteneva che per i nevrotici il meccanismo difensivo
centrale fosse la "rimozione”, cioè la repulsione da parte dell’Io o del
Super-Io di rappresentazioni incompatibili con le proprie esigenze. Mentre per
le psicosi introdusse, nel 1896, il meccanismo della “proiezione” intesa come
misconoscimento della realtà interna, operazione attraverso cui il soggetto
localizza fuori di sé, in persone o cose, ciò che rifiuta o non riconosce come
proprio.
(…) Il delirio paranoico è il fallimento del resistere alla
resistenza. Tratteggiata dalla psichiatria dei primi del novecento come la
caricatura deficitaria della “normalità”, la paranoia non fa che sottolineare i
paradossi della “personalità realizzata”. Lacan giunge a dire che la paranoia
non ha nessun rapporto con la personalità in quanto sono la stessa cosa. (…)
Successivamente la psichiatria ha definito la paranoia una forma particolare di
quel quadro clinico che Eugen Bleuler faceva derivare da una scissura (Spaltung) patologica del pensiero: la
schizofrenia. Da questa considerazione possiamo cogliere come la paranoia sia
estromessa dalla nosografia psichiatrica in quanto viene assimilata alla “normalità”
che Lacan, non senza umorismo, definisce una psicosi “ben riuscita”.
[1] A. Métraux, il Vodu haitiano, Einaudi, 1971, p.283
Giancarlo Ricci, L’amore
del tiranno. Psicanalisi e istituzione, Marsilio, 1978
L’hanno scritto in tre – Eugenio Colorni, Ernesto
Rossi, Altiero Spinelli – su un’isola dove erano confinati. È il manifesto di
Ventotene, il progetto di un’Europa possibile e necessaria.
Era l’estate del ’41, molto preoccupante, per
l’Italia, l’Europa, il mondo. Può aiutarci ad affrontare i tempi orribili nei
quali siamo entrati.
(Elogio delle ammorsature)
(...) Rileggiamo i primi articoli della nostra
costituzione e fermiamoci sull’11 (quante volte l’avremo sentito?): “L’Italia
ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e
come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in
condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità
necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le
Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale
scopo”. È il ripudio dell’ottuso sovranismo per una prospettiva più ampia, la
sola che può dare speranza.
Lo diceva bene
Calamandrei: “Come gli architetti nel costruire parte di un edificio che dovrà
esser compiuto nell’avvenire lasciano nella parete destinata a servire
d’appoggio certe pietre sporgenti che essi chiamano ammorsature, cosi è
concepibile che nella Costituzione italiana siano inserite, in direzione della
federazione non ancor nata, cosiffatte ammorsature giuridiche, che potranno
domani servire di raccordo e di collegamento con una più vasta costruzione
internazionale: offerte unilaterali che mostreranno fin d’ora la nostra buona
volontà, e che, funzionando oggi da invito e da esempio, potranno domani,
quando il nostro richiamo sarà compreso, trasformarsi in intese e, via via, in
aggregati sempre più solidi e più spaziosi “.
L’aggregato più solido e spazioso è l’Europa. Non
possiamo rinunciarvi per rinchiuderci in spazi nazionali asfittici e
pericolanti, in balia di potenze economiche, politiche e militari che vediamo
all’opera contro tutti i principi che abbiamo condiviso nella carta del Diritti
fondamentali dell’Unione Europea: dignità, libertà, uguaglianza, solidarietà,
cittadinanza, giustizia. Piero Calamandrei riuscì a cogliere, con una metafora
architettonica alquanto singolare, questa tensione espansiva del testo
costituzionale e, soprattutto, l’«ineludibilità storica dell’espansione dell’associazionismo
internazionale» che, già alla fine degli anni ’40, era percepita come una
scelta non più ritrattabile; il padre costituente, infatti, parlò di
«ammorsature giuridiche» per indicare quelle disposizioni che, in un futuro,
non ancoraimmaginabile o comunque non
pienamente configurabile negli anni in cui operò la Costituente, sarebbero potute
«servire di raccordo e di collegamento con una più vasta costruzione internazionale»
[1]Questa visione sovrannazionale e comunitaria (e poi
europea) del patto costituzionale rappresenta un’importante eredità per gli
operatori giuridici e la classe politica di oggi; avendo a mente il formidabile
percorso di integrazione europeo compiuto dal nostro paese, quelle ammorsature giuridiche,
di cui parlava Calamandrei, sembrano aver raggiunto lo scopo prefissato. La
previsione introdotta con la legge costituzionale n. 3 del 2001 s’inserisce in
questa prospettiva generale, rappresentando, senza ombra di dubbio,
un’evoluzione in senso migliorativo di quanto già auspicato dai padri
costituenti.
Non a caso nel corso degli anni, dall'ammirazione
reciproca nascerà una profonda amicizia, che farà dire a Bobbio di Calamandrei:
«era quello che avrei voluto essere».
Succede però che l’ex premier Conte, nonostante
l’infarinatura di cultura giuridica, ha poi rilanciato la sua richiesta su uno
stop alle armi per Kiev: “Non credo che il governo italiano, dopo tre invii di
forniture, si debba distinguere per continuare a riarmare l’Ucraina. Ci dicono
gli esperti che l’Ucraina in questo momento è uno dei paesi più armati al
mondo“.
Non che da ciò che resta del M5S ci saremmo aspettati
qualcosa di diverso. Miopia e cinismo li hanno nei cromosomi. “Né destra, né
sinistra”, con quell’antico assunto di base hanno sempre camuffato opportunismo
e qualunquismo di fondo, autoeleggendosi a movimento post-ideologico e
transpolitico.
[2][Gli
artt. 10 e 11 Cost., il primo, statuendo la clausola internazionalistica e il
secondo, accettando solennemente «limitazioni di sovranità necessarie ad un
ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni», rappresentano
il “cuore” della scelta di apertura dei padri costituenti e la base del
composito percorso intrapreso dall’Italia nel cammino d’integrazione europea e
nel riconoscimento delle numerose Carte dei diritti elaborate in ambito internazionale
(come, ad esempio, la CEDU o la Convenzione di Ginevra sullo status di
rifugiato del 1951). Le cose dette finora e, soprattutto, ciò che si potrebbe
dire ancora su questo tema vastissimo, confermano che il principio internazionale
potrebbe essere considerato un principio supremo, tale da resistere al
procedimento di revisione costituzionale, in virtù dell’impronta espansiva
dell’art. 139 Cost., più volte menzionata. L’intangibilità della vocazione
internazionale si può accertare, non solo dalla collocazione degli artt. 10 e
11 Cost. nella prima parte della Costituzione, ma dalla constatazione che il
principio in esame è visceralmente collegato a Repubblica, che non può (o sicuramente non può più) essere
considerata una Repubblica democratica solo intra moenia, ma anche europea;
peraltro, le scelte compiute dall’Italia, dal Trattato di Roma del 1957 in
avanti, potrebbero confermare che il diritto costituzionale italiano non può
considerarsi avulso dal processo di integrazione europeo. Uno dei risultati di
questo lungo e complesso cammino è stato la creazione di un sistema
parlamentare euro-nazionale, nel quale il Governo italiano opera
contemporaneamente in due diversi contesti istituzionali (quello nazionale e
quello europeo); ciò non descrive solamente dall’esterno la nostra forma di
governo (e quindi la forma di Stato), ma la alimenta, la integra, diventandone,
così, un suo aspetto costitutivo.
[1] Un
«Ponte» per la democrazia. Lettere 1937-1956 di Norberto Bobbio, Piero Calamandrei, a cura di
Marcello Gisondi, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 2020
2 Alice
Stevanato,"Qualche considerazione sul contenuto materiale del limite della
forma repubblicana alla luce di due recenti proposte di legge costituzionale di
modifica dell’art. 117." in
“Il Piemonte delle Autonomie”, Rivista quadrimestrale
di scienze dell'Amministrazione, Anno VI, Numero 1 - 2019
Con Jonathan Littell*, Emiliano Sfara**, Orazio Garofalo*** e la squadra di Limes, facciamo il punto su Mr. Putin, una pericolosa banda di paranoici, un pezzetto magniloquente di patografia e di nosografia psichiatrica.
Astenersi perditempo
a cura di Massimo Celani
Astenersi perditempo. O almeno evitiamo di dire cazzate su Putin e sull'Ucraina. Quelle delle 5 leghe, di Santoro, di Conte, di Luigi De Magistris e via peggiorando. Meglio fermarsi in edicola a comprare una copia di Limes. Meglio un numero vecchio, il n.4 del 2022, quello che per fortuna - nell'ipocrita Italietta - aprì le danze. Lo sappiamo, costa 15 euro, ma li vale tutti. In particolare "Lettera da Kiev" di Constantin Sigov, una testimonianza da Kiev sotto assedio. Scritta direttamente in francese (Sigov, di formazione filosofo, ha insegnato a Parigi alla Sorbona e all’Ehess, l’Istituto di alti studi in scienze sociali), e contemporaneamente pubblicata in Francia da Les Editions du Cerf. Ovviamente la si trova anche on line ma suggeriamo di evitare "limesonline" che immancabilmenta sabota google e attiva l'orribile Yahoo. Meglio appoggiarsi al seguente sito https://www.nuovatlantide.org/lettera-da-kiev/
(...) Da un discorso elaborato per giustificare degli atti illeggittimi, Putin sembra passato a un monologo allucinato. Già otto anni fa Angela Mekel lo giudicava "sconnesso dalla realtà". Da allora questo distacco è stato accentuato dal suo stretto isolamento in un bunker durante l'epidemia. Vivendo nella sua bolla, gli è difficile distinguere fra le sue invenzioni e la sua idiosincrasia. (...)
«Se non io ora, chi, quando?». Vladimir Vladimirovic Putin lo ripeteva da tempo ai rari intimi, con quel mezzo sorriso tirato che per l’età pare smorfia. Sapendolo allenato a governare un carattere emotivo e violento, i pochissimi che si scontravano con quell’anacoluto preferivano leggervi acida battuta anziché minaccia in cifra. Fino all’alba del 24 febbraio. Quando Putin ha annunciato alla Russia e al mondo che i suoi carri armati stavano invadendo l’Ucraina. Per riportare i «fratelli» a casa. Prima che il loro appartamento diventi americano. E che al Cremlino sieda un successore, di certo meno capace.
Il presidente russo è l’invidia di ogni decisore. Nessuno fra i capi delle potenze avvicina il suo potere. Filosofi e politologi di cultura liberale lo bollano «totalitario». Definizione generica, di scarsa pregnanza per l’analisi geopolitica. Acquista senso solo se decrittata nel suo contesto. Per noi occidentali è sinonimo di oppressione. Nel sistema russo – zarista, sovietico e putiniano, ciascuno con le sue variazioni e i suoi bemolle – vale l’opposto. ("Lucio Caracciolo, Platov non ha paura", in "Il caso Putin", n.4, 2022)
Nello specchio bielorusso
Per il regime putiniano, la contabilità degli orrori staliniani deve restare un affare strettamente interno alla Russia. Non vanno giudicati dunque i crimini contro l’umanità, bensì i crimini contro «i nostri»: i numeri, le circostanze, i meccanismi sono materia della propaganda, non della storia. Il sistema dittatoriale instaurato da Vladimir Putin esige che siano trattati come «questioni locali», estranei a ogni competenza fuor che la sua. Ha un grande interesse in tutto ciò. Essendo i crimini di Stato dell’Urss condannabili soltanto in funzione di un criterio di aggiustamento ideologico, i sicari che a Mosca hanno assassinato Anna Politkovskaja e Boris Nemcov sono a piede libero. L’impunità dei criminali di oggi va a braccetto con la politica di amnesia nazionale sui crimini del passato.
Il timore di dover comparire davanti a un tribunale internazionale spiega perché, consciamente o meno, questo regime dimostra tanta inerzia ossessiva. La retorica maniacale del Cremlino sull’Alleanza Atlantica sembra insensata finché non vediamo che dietro la sigla Nato si profila la possibilità di una nuova Norimberga.
È ciò che segnala, a suo modo, lo specchio del complice di Vladimir Putin, Aljaksandr Lukašenka. Che cosa importa al dittatore di Minsk del tribunale dell’Aia se i suoi crimini sono un «affare interno» alla Bielorussia? L’autocrate sottrae alla giurisdizione del mondo civilizzato il paese di cui si è impadronito. Sottrae dallo spazio dell’umanità il territorio che terrorizza. Grazie all’isolamento del regime neosovietico da lui messo in piedi, si fregia del diritto esclusivo di compiere impunemente il male dentro le sue frontiere.
È evidente che questo male cresce all’ombra della stoltezza dei commentatori stranieri che chiudono gli occhi su quanto accade «laggiù» come se non riguardasse «qua». Non bastano i malfattori per minimizzare l’unità del genere umano, la negano anche gli stolti: Dietrich Bonhoeffer, pastore e teologo martire del nazismo, spiegava che questi ultimi sono più pericolosi dei loro compari perché il loro sentimento di autosufficienza inclina all’autodistruzione.
Aljaksandar Lukašenka non ha certo la stoffa dell’eroe; per raffreddarne l’ardore repressivo, sarebbe sufficiente ricordargli l’esempio del serbo Slobodan Miloševic, arrestato e sottoposto a giudizio dopo le guerre di Jugoslavia, e minacciarlo di subire la stessa sorte. Nell’attesa, i dirigenti europei dovrebbero spiegare al satrapo di Minsk che il conflitto scatenato contro Kiev non lo riguarda e che inviare i suoi miliziani al fianco degli invasori russi gli sarà fatale.
Quale modello di relazione propone all’Ucraina chi, in Russia e in Bielorussia, si prepara a celebrare nel dicembre 2022 il centenario della creazione dell’Unione Sovietica? Il dominio della violenza, della costrizione e dell’oppressione illimitata, sin dagli inizi cuore del sistema totalitario comunista. Quello che il regime di Putin esercita sul regime di Lukašenka con la collaborazione di quest’ultimo. Quello che l’Ucraina rifiuta sforzandosi di smascherare la glorificazione del male che lo fonda. (Costantin Sigov, Lettera da Kiev, traduzione di Federico Petroni e Gianni Nela).
Astenersi perditempo, dunque. O almeno - in subordine - evitiamo di dire cazzate su Putin e sull'Ucraina. Quello delle 5 leghe è un pacifismo tardivo, miope, cinico e disinformato.
(...) Da un discorso elaborato per giustificare degli atti illeggittimi, Putin sembra passato a un monologo allucinato. Già otto anni fa Angela Mekel lo giudicava "sconnesso dalla realtà". Da allora questo distacco è stato accentuato dal suo stretto isolamento in un bunker durante l'epidemia. Vivendo nella sua bolla, gli è difficile distinguere fra le sue invenzioni e la sua idiosincrasia. (...)
«Se non io ora, chi, quando?». Vladimir Vladimirovic Putin lo ripeteva da tempo ai rari intimi, con quel mezzo sorriso tirato che per l’età pare smorfia. Sapendolo allenato a governare un carattere emotivo e violento, i pochissimi che si scontravano con quell’anacoluto preferivano leggervi acida battuta anziché minaccia in cifra. Fino all’alba del 24 febbraio. Quando Putin ha annunciato alla Russia e al mondo che i suoi carri armati stavano invadendo l’Ucraina. Per riportare i «fratelli» a casa. Prima che il loro appartamento diventi americano. E che al Cremlino sieda un successore, di certo meno capace.
Il presidente russo è l’invidia di ogni decisore. Nessuno fra i capi delle potenze avvicina il suo potere. Filosofi e politologi di cultura liberale lo bollano «totalitario». Definizione generica, di scarsa pregnanza per l’analisi geopolitica. Acquista senso solo se decrittata nel suo contesto. Per noi occidentali è sinonimo di oppressione. Nel sistema russo – zarista, sovietico e putiniano, ciascuno con le sue variazioni e i suoi bemolle – vale l’opposto. ("Lucio Caracciolo, Platov non ha paura", in "Il caso Putin", n.4, 2022)
Per il regime putiniano, la contabilità degli orrori staliniani deve restare un affare strettamente interno alla Russia. Non vanno giudicati dunque i crimini contro l’umanità, bensì i crimini contro «i nostri»: i numeri, le circostanze, i meccanismi sono materia della propaganda, non della storia. Il sistema dittatoriale instaurato da Vladimir Putin esige che siano trattati come «questioni locali», estranei a ogni competenza fuor che la sua. Ha un grande interesse in tutto ciò. Essendo i crimini di Stato dell’Urss condannabili soltanto in funzione di un criterio di aggiustamento ideologico, i sicari che a Mosca hanno assassinato Anna Politkovskaja e Boris Nemcov sono a piede libero. L’impunità dei criminali di oggi va a braccetto con la politica di amnesia nazionale sui crimini del passato.
Il timore di dover comparire davanti a un tribunale internazionale spiega perché, consciamente o meno, questo regime dimostra tanta inerzia ossessiva. La retorica maniacale del Cremlino sull’Alleanza Atlantica sembra insensata finché non vediamo che dietro la sigla Nato si profila la possibilità di una nuova Norimberga.
È ciò che segnala, a suo modo, lo specchio del complice di Vladimir Putin, Aljaksandr Lukašenka. Che cosa importa al dittatore di Minsk del tribunale dell’Aia se i suoi crimini sono un «affare interno» alla Bielorussia? L’autocrate sottrae alla giurisdizione del mondo civilizzato il paese di cui si è impadronito. Sottrae dallo spazio dell’umanità il territorio che terrorizza. Grazie all’isolamento del regime neosovietico da lui messo in piedi, si fregia del diritto esclusivo di compiere impunemente il male dentro le sue frontiere.
È evidente che questo male cresce all’ombra della stoltezza dei commentatori stranieri che chiudono gli occhi su quanto accade «laggiù» come se non riguardasse «qua». Non bastano i malfattori per minimizzare l’unità del genere umano, la negano anche gli stolti: Dietrich Bonhoeffer, pastore e teologo martire del nazismo, spiegava che questi ultimi sono più pericolosi dei loro compari perché il loro sentimento di autosufficienza inclina all’autodistruzione.
Aljaksandar Lukašenka non ha certo la stoffa dell’eroe; per raffreddarne l’ardore repressivo, sarebbe sufficiente ricordargli l’esempio del serbo Slobodan Miloševic, arrestato e sottoposto a giudizio dopo le guerre di Jugoslavia, e minacciarlo di subire la stessa sorte. Nell’attesa, i dirigenti europei dovrebbero spiegare al satrapo di Minsk che il conflitto scatenato contro Kiev non lo riguarda e che inviare i suoi miliziani al fianco degli invasori russi gli sarà fatale.
Quale modello di relazione propone all’Ucraina chi, in Russia e in Bielorussia, si prepara a celebrare nel dicembre 2022 il centenario della creazione dell’Unione Sovietica? Il dominio della violenza, della costrizione e dell’oppressione illimitata, sin dagli inizi cuore del sistema totalitario comunista. Quello che il regime di Putin esercita sul regime di Lukašenka con la collaborazione di quest’ultimo. Quello che l’Ucraina rifiuta sforzandosi di smascherare la glorificazione del male che lo fonda. (Costantin Sigov, Lettera da Kiev, traduzione di Federico Petroni e Gianni Nela).