photo Vincenzo "Guru" Iaconianni
Quello
della maturità
L’anno
che verrà
Classe
56, suppongo che la notte prima degli esami sia caduta a luglio del 1975. Non
ricordo niente, salvo un voto (52/60) che ratificava correttamente la
canzoncina “è intelligente ma non studia”. Ricordo invece molto bene
quell’ultimo anno di liceo al Telesio: la compagine, la microfisica del potere,
le atmosfere.
Terza C, mai varcata la soglia della nuova costruzione, tre anni rigorosamente passati in una vecchia aula protetta da colonne monumentali. Dirimpettai i fascistazzi della terza D (o era la B?), noi eravamo tutti “de sinistra”. Prima dell’entrata a scuola spesso facevo diffusione militante de “il Manifesto”, a volte incocciando lo sguardo spavaldo di Mimmo Barile, cinque minuti dopo Letizia Minniti si complimentava ironicamente con lo studente lavoratore che evidentemente al mattino si alzava presto. Ricordo pure il giorno in cui la stessa brava docente andò in visibilio quando si accorse che l’angelica Patrizia, la più bella delle compagne, ignorava il significato di “lussurioso” pensando ingenuamente a una relazione col lusso (evidentemente i falsi amici esistono anche nella lingua italiana). E chi altro c’era in quella classe, più agiata che truculenta, dalla innata confidenza col soft-core del potere? Vediamo un po’: il figlio del senatore Gaudio (credo fosse il fratello dell’attuale rettore di La Sapienza, cattolico da primo banco, molto ben educato, che oggi ricorda il Mattarella - della parodia che ne fa Crozza - condannato all'invisibilità); Stefania la figlia del senatore Frasca, Pierrette figlia dell’ex senatore Gullo, Ernestina figlia del primario (ma sarebbe più corretto dire “l’inventore”) del laboratorio d’analisi dell’Annunziata, Carlo figlio del direttore generale della Cassa di Risparmio, Francesco figlio del presidente del tribunale, Anna figlia di un noto docente di matematica, idem dicasi per Franco che però era di Lotta Continua, il più sveglio e eretico della compagnia, il primo a inaugurare la serie delle migrazioni intellettuali. Tralascio il resto, quasi tutti figli di presidi, professionisti e dirigenti. Chi scrive era il figlio di Spartaco, un ingegnere che lavorava all’OVS (poi Esac, poi Arsa): praticamente, al confronto di quella classe terribile, rappresentavo il sottoproletariato urbano.
Terza C, mai varcata la soglia della nuova costruzione, tre anni rigorosamente passati in una vecchia aula protetta da colonne monumentali. Dirimpettai i fascistazzi della terza D (o era la B?), noi eravamo tutti “de sinistra”. Prima dell’entrata a scuola spesso facevo diffusione militante de “il Manifesto”, a volte incocciando lo sguardo spavaldo di Mimmo Barile, cinque minuti dopo Letizia Minniti si complimentava ironicamente con lo studente lavoratore che evidentemente al mattino si alzava presto. Ricordo pure il giorno in cui la stessa brava docente andò in visibilio quando si accorse che l’angelica Patrizia, la più bella delle compagne, ignorava il significato di “lussurioso” pensando ingenuamente a una relazione col lusso (evidentemente i falsi amici esistono anche nella lingua italiana). E chi altro c’era in quella classe, più agiata che truculenta, dalla innata confidenza col soft-core del potere? Vediamo un po’: il figlio del senatore Gaudio (credo fosse il fratello dell’attuale rettore di La Sapienza, cattolico da primo banco, molto ben educato, che oggi ricorda il Mattarella - della parodia che ne fa Crozza - condannato all'invisibilità); Stefania la figlia del senatore Frasca, Pierrette figlia dell’ex senatore Gullo, Ernestina figlia del primario (ma sarebbe più corretto dire “l’inventore”) del laboratorio d’analisi dell’Annunziata, Carlo figlio del direttore generale della Cassa di Risparmio, Francesco figlio del presidente del tribunale, Anna figlia di un noto docente di matematica, idem dicasi per Franco che però era di Lotta Continua, il più sveglio e eretico della compagnia, il primo a inaugurare la serie delle migrazioni intellettuali. Tralascio il resto, quasi tutti figli di presidi, professionisti e dirigenti. Chi scrive era il figlio di Spartaco, un ingegnere che lavorava all’OVS (poi Esac, poi Arsa): praticamente, al confronto di quella classe terribile, rappresentavo il sottoproletariato urbano.
Quando
molti anni più tardi rincontrai Barile, questa volta all’APT, ero già incline
al “come eravamo” e all’autoironia. Citai “compagni di bancomat”, uno slogan
che avevo utilizzato proprio per la Carical e lui mi raggelò con una dichiarazione
di tutela e rispetto del mio passato oltre che dei tempi dell’agonismo
ideologico. Credo avesse ragione: accusai il colpo. Evidentemente il presente
modifica il passato e il cinismo come presa di distanza è forma sospetta di
elaborazione.
I tanti
supplenti di matematica che si avvicendarono rischiavano di brutto se non c’era
il gradimento del soviet, pronto a recarsi in delegazione dal preside Giallombardo.
La terza C era un concentrato di aristocrazia e di potere, poco o nulla
metacognitivi sul punto, forse perché si era tutti sobriamente anticonformisti.
Si tirava filone spesso ma non erano anni di Villa Vecchia. Il fido zio Piò
scarrozzava Pierrette con la sua cinquecento scassata, indifferentemente per la
salita del Liceo o per Torre Alta, una delle umoristiche sedi de Il Manifesto.
Noi maschietti eravamo più dromomani grazie alla dotazione di motorini: Raffaele
aveva una vespa truccata, una di quelle che “paaaaaaaaaaaaaa” simulava velocità
immense ma era ferma, quasi inamovibile; io avevo un Morini quattro-tempi e il
privilegio di aver avuto come istruttore di guida Guerino D’Ignazio (attuale
direttore di dipartimento e pro-rettore all’Unical); Vincenzo Maria una moto aggressiva
(125 di cilindrata) : insieme si andava verso Mendicino nel casino di campagna
dei suoi familiari. Lo spasso supremo era quando Carlo, Francesco e Vincenzo
Bruno s’impossessavano del mio Scrambler (“366”, la combinazione del lucchetto
blocca ruota, la sapevano tutti). Mentre ero da Tonino e Lisandro - barbieri in
via Alimena - passavano e ripassavano, anche in tre o in quattro, a mo’ di
tortura mentre ero immobilizzato. Lo stesso anno scoprii anche l’antica
residenza cittadina dei Maria Greco, a pochi metri di distanza dal vecchio
liceo, con una biblioteca che comprendeva sguardi severi di avi alle pareti,
incunaboli, quattrocentine, cinquecentine, molti tarli e pure qualche fantasma.
Ero un ciuccione, non avevo certo la passione dei libri, ma quel luogo mi
stregò.
Fece il resto il papà di Nunzio Scalercio che alla biblioteca civica
prese a passarmi dritte e curiosità (ricordo ancora un saggio di De Frede su
Galeazzo di Tarsia). Ricordo pure, come se fosse ieri, quando Danielle, la
docente di filosofia, ci condusse all’Unical a sentire una strana conferenza su
Freud. Quello diceva una parola, molto spesso in tedesco, ogni 4 minuti e non
capii una mazza. Molti anni dopo scoprii che quel signore era Giacomo B.
Contri, il traduttore di Jacques Lacan. E che quei lunghi silenzi, in cui
cercava di afferrare le parole, mettevano in scena uno sforzo di traduzione. L’università
coincideva con il polifunzionale e fu una bellissima giornata di sole. Una
dimensione, un clima e un habitat piacevolissimi, che facevano ben sperare.
E’
forse sintomatico che di quell’anno, comunque indimenticabile, ricordi le prime
timide uscite, le gite fuori porta, l’affacciarmi in luoghi pertinenti all’educazione
e alla formazione ma pur sempre delocalizzati: una preziosa biblioteca privata,
quella civica poco distante, il cosiddetto “polifunzionale” immerso nel verde.
Per come si sono involute le cose, prevale la delusione per ciò che avrebbero
potuto rappresentare quei satelliti. Ma – sulla soglia dei 60 anni – son forse
diventato un vecchio brontolone. Qualcosa continua a dirmi però che quell’anno,
non dico che mi sia stato utile (ché non ne ho concluso una e ho finito col
condurre una vita all’insegna del motto beckettiano “fallisci ancora, fallisci
meglio”), ma so che mi sarà utile, ché di maturità manco a parlarne. O forse
meglio, che mi sarà stato utile (strano il tempo in cui il futuro modifica il
passato). Almeno per ricordare la pensosità di Nino Catera e l’allegra mestizia
di Enzo Ferraro. L’understatement di due compagni di classe che non ci sono più.
Massimo Celani
"Il Quotidiano del Sud"
Cosenza, sabato 4 luglio 2015, pagg. 19-20
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