Ero sulle tracce di Amalia Signorelli, l'arguta antropologa ormai di casa ai diMartedì di la7.
Sapevo che arrivò a Cosenza nel 1959 e che per un po' fu consigliera comunale.
Così, cercando nell'archivio dell'ufficio stampa, ho trovato la composizione del consiglio del 1965. E - come suol dirsi - mi si è aperto un mondo. E ho capito.
Avevo nove anni e di alcuni ricordo solo il nome, altri (favorito dall'orientamento politico del babbo socialista o dal fatto di aver abitato nel palazzo della federazione provinciale del PCI) li ricordo perfettamente.
Il sindaco era Mario Stancati. C'erano Fausto Lio (un collega di papà che credo divenne direttore dell'OVS, poi ESAC e ARSA), Ciccio Smurra e Pietro Rende (grandi carriere politiche con lo scudo crociato).
Nel PCI c'erano Giudiceandrea, Martorelli, Carravetta, Carratta, Ambrogio e Macchione (molti di questi si fermavano con me a fare quattro passaggi a pallone sul pianerottolo di casa, comune a quello della federazione).
C'erano i liberali Mario Paolini e Ernesto D'Ippolito, il compagno PSIUP Scipione Valentini. E poi Michele Cozza e Consalvo Aragona (per me equivalenti simbolici del medico santo Giuseppe Moscati) e Gaetano De Rose (il papà di Umberto - mannaggia al cinghiale - mio compagno di scuola). Anche l'odiatissimo MSI era rappresentato da tre persone di spessore e perbene: Benito Falvo, Ugo Verrina e Carmine Calabrese.
Per un po', non per tutta la consiliatura, ci fu tra i socialisti anche Amalia Signorelli.
E nella giunta precedente, quella del 1961 (sindaco Arnaldo Clausi Schettini), tra i banchi della DC c'erano Riccardo Misasi, Ernesto Corigliano, Francesco Mario Piersante; mentre tra quelli del PCI c'erano Gino Picciotto e la mitica Rita Pisano.
Non credo siano necessari commenti. E ingeneroso sarebbe un invito al raffronto con le compagini degli ultimi trent'anni, segnate da un lento e inesorabile decadimento.
MC
Cosenza 30.05.2015
§
Nel momento in cui è uscita dal servizio attivo
nell’Università italiana, Amalia Signorelli, professore ordinario di
Antropologia Culturale presso la Facoltà di Sociologia dell’Università
“Federico II” di Napoli, ha indirizzato agli studenti, ai docenti e al
personale non docente, una lettera che induce a riflettere sulla condizione
dell’Università italiana, in un momento di drammatica crisi e di notevole
agitazione e protesta. La lettera, che Signorelli ha accettato fosse
partecipata a un pubblico più largo attraverso le pagine di questo portale, tra
ottobre e novembre 2008, sollecita un’approfondita riflessione non soltanto sui
problemi di politica immediata, che pur solleva, ma più in generale sull’etica
della formazione e della ricerca, soprattutto, ma non esclusivamente, nel campo
delle scienze sociali. Ne riportiamo di seguito il testo.
Estranea al
sistema universitario italiano attuale
Ai componenti del
Consiglio della Facoltà di Sociologia e a tutti gli studenti, docenti e
personale non docente della Facoltà di Sociologia dell'Università
"Federico II" di Napoli.
Miei cari, il 1 novembre 2008 andrò in pensione e non sarò
più membro di questa Facoltà. Cortesemente la Preside, prof. Enrica Amaturo, mi
ha invitato a tenere quella lectio magistralis che in questi casi
tradizionalmente costituisce la cerimonia di congedo di un docente
universitario dalla Facoltà a cui appartiene. Ho declinato l'invito e dunque
non terrò la lezione di congedo. Poiché mi addolorerebbe molto se questa mia
decisione apparisse come una snobistica mancanza di riguardo verso Voi tutti,
vorrei brevemente motivarla con questa lettera. (La quale, sia detto per
inciso, vi ruberà meno tempo dell’ascolto di una lezione di 45 minuti!)
Dunque: non desidero tenere la lezione perché sul piano
scientifico e didattico mi sento da tempo estranea a questa Facoltà e al
sistema universitario italiano attuale; e dubito di poter comunicare, sia per
quanto attiene ai contenuti che per quanto attiene al linguaggio, con
l’uditorio che eventualmente mi ascolterebbe.
Permettetemi di motivare un’affermazione così drastica.
Come alcuni fra Voi sanno, sono stata sempre fortemente
critica verso la Riforma universitaria. E non, come pure si è detto, per
misoneismo, ma perché sono profondamente e razionalmente convinta che sia
sbagliata. O se è giusta, è giusta rispetto a obbiettivi che io considero
sbagliati. Non insisterò sugli aspetti psicopedagogici e didattici. Dopo dieci
anni e più, comincia a essere chiaro anche ai loro più tenaci difensori quanto
assurdi e controproducenti essi siano stati e continuino ad essere.
Ancor più a me sembra criticabile per la sua ambiguità non
innocente l’ipotesi dell’università-azienda, che si autofinanzia. Venuti meno i
contributi statali stabiliti per legge (e dunque non decisi di finanziaria in
finanziaria dal governo di turno), ora l’università ricava introiti propri solo
dalle tasse degli studenti ( e non voglio entrare nel merito dei sistemi
adottati per incrementare le iscrizioni); per il resto, non è vero che
l’università si autofinanzia e produce reddito: l’università è finanziata da
tutte quelle agenzie sociali pubbliche o private che hanno interesse ad
acquisire certe sue prestazioni e certi suoi prodotti. Cioè, giustamente
essendo un’azienda, l’Università sta e deve stare sul mercato e per il mercato
produrre, sia pure un particolare tipo di merci. Per le scienze sociali questo
significa appiattirsi su due ambiti dominanti di ricerca e di formazione: la
produzione di ingegneri sociali ovvero degli addetti alla gestione del
cosiddetto disagio sociale, con messa a punto di competenze per il
riconoscimento dei sintomi (diagnosi) e per la riduzione del danno (terapia), e
con una sempre minor attenzione per l’analisi delle cause sociali del disagio
stesso; l’altra possibilità è, in collaborazione con le scienze della
comunicazione, la produzione di produttori di consenso, che acquisiscono
competenze sulle tecniche di produzione del consenso stesso, con scarsa o
nessuna problematizzazione dei fini per cui il consenso è richiesto, delle
materie su cui è richiesto, da chi è richiesto e chi si deve ottenere che lo
dia . Nulla di male, queste sono da tempo le attività di vari professionisti,
giornalisti e assistenti sociali: ma chi sarà più in grado di fare l’analisi
critica dei sistemi sociali e culturali?
Temo nessuno più, anche perché un’altra innovazione
introdotta contemporaneamente alla Riforma ostacola profondamente
l’acquisizione di capacità critiche da parte dei giovani. Abbiamo tutti
imparato dallo strutturalismo che l’opposizione binaria è la struttura
elementare del pensiero umano: elementare, appunto. Per fortuna, esistono anche
altre e più complesse modalità del pensiero (e del linguaggio) umano: dalla
logica algebrica a quella grammaticale e sintattica, per non citare che quelle
più comunemente insegnate (un tempo) nelle scuole. Ma l’informatizzazione
banalizzante e feticistica dell’insegnamento e dell’apprendimento di qualsiasi
disciplina (cosa molto diversa dall’acquisizione di una formazione informatica
specialistica) sta a mio avviso riducendo il sapere trasmissibile e trasmesso
solo a quello che si lascia costringere entro le logiche binarie: non è tanto
il computer che, usato come mezzo, impone il suo messaggio; il problema è
piuttosto che l’uso esclusivo di quel mezzo e del suo linguaggio sta
determinando una forma mentis elementare generalizzata. La progressiva
sostituzione dell’esame orale con i quiz basati sull’opposizione
giusto/sbagliato e della lezione ex-cathedra con i PowerPoint e simili, mi
sembra dimostrino in modo eloquente la perdita di interesse per le capacità di
argomentazione e di comprensione dell’argomentazione, sia degli studenti che
dei docenti.
Avrei molto ancora da dire. Voglio mettere sul tavolo solo
un altro tema: mi sembrerebbe poco corretto tacerlo. Non condivido affatto un
asse portante della politica dell’istruzione pubblica che buona parte della
“sinistra” italiana ha sostenuto e realizzato negli ultimi decenni: il fatto
che invece di puntare sul (difficile, lo so, ma non impossibile) raggiungimento
del massimo possibile di uguaglianza delle opportunità e delle dotazioni alla
partenza, ha puntato sull’uguaglianza dei risultati attraverso il progressivo
abbassamento delle difficoltà di accesso e di passaggio da un livello a quello
superiore. Il che, anche qui, non significa che io rimpianga i licei e le
università d’élite, classiste e autoritarie, del tempo che fu. Significa che
l’eguaglianza nell’ignoranza non mi sembra molto emancipatoria; significa
altresì in termini sociopolitici generali, che questa scelta sta consegnando
interamente a istanze private la formazione della classe dirigente nazionale.
Senza nessuna garanzia su quello che faranno le istanze private.
Tutte queste mie critiche, perplessità, dubbi non hanno
trovato occasione di dibattito in Facoltà, pur avendo qualche riscontro a
livello nazionale; e io mi sono progressivamente estraniata dalle discussioni e
dalle decisioni di indirizzo della Facoltà stessa.
Tuttavia ho voluto essere intellettualmente onesta, almeno
verso gli studenti: poteva darsi benissimo che io non avessi capito niente, che
la riforma fosse una buona cosa; mi sono messa a studiarla e ho poi scritto un
manuale di antropologia culturale per gli studenti post-riforma. Manuale
pubblicato da una multinazionale del libro, nota per la grinta con cui sta sul
mercato e per le ferree direttive che impartisce agli autori; ma…..avendo la
ventura di aver scritto libri non solo tradotti in altri paesi, ma anche
adottati in alcune università straniere come libri di testo, mi accade di
scoprire che gli studenti di quei paesi apprezzano i miei testi e li studiano
volentieri, mentre gli studenti della mia stessa Facoltà li trovano difficili,
complessi, incomprensibili; e questo ogni anno di più. Mi chiedo: cosa rende i
nostri studenti così… diversamente abili?
La mia generazione ha perso, diceva Giorgio Gaber. Ma
considerando che Silvio Berlusconi è mio coetaneo, non posso proprio dire che
ha perso la mia generazione. Ho perso io e quelli come me. E sono disponibile,
anzi sto già facendo una severa autocritica sul piano della strategia e delle
tattiche. Ma i convincimenti di fondo non riesco a modificarli, per quanto ci
provi. Non riesco a vedere le ragioni per cui dovrei modificarli. E continuo a
pensare che sia mio dovere (e piacere) di docente insegnare agli studenti
nozioni e competenze, ma contemporaneamente trasmettere loro gli strumenti
della critica intellettuale dell’esistente: che non è mai (e meno che mai
adesso) il migliore dei mondi possibili. A chi dire oggi queste cose? A chi
dirle in questa Facoltà? A chi dirle nell’Università-azienda?
Ho pensato che questa lettera può avere almeno un ruolo: in
tempi di unanimismi e di buonismi conformistici, una posizione di dissenso
pubblicamente manifestata e argomentata è forse la sola lezione di qualche
utilità che io possa svolgere.
A suo tempo ho scelto di venire a Napoli e di insegnare in
questa Facoltà. Sono passati circa trent'anni, durante i quali ho molto
lavorato nella didattica, nella ricerca, nella gestione istituzionale; e ho
intessuto molti rapporti di molti tipi con molte persone. Voglio scusarmi con
coloro che, in varie circostanze, hanno dovuto sopportare il mio “temperamento”
certamente poco disponibile alle negoziazioni; voglio ringraziare coloro, molti
studenti in primo luogo, il rapporto con i quali mi ha fatto amare il mio
lavoro; voglio augurare a tutti, a me stessa per prima, un buon futuro. A
ciascuno secondo i suoi bisogni, da ciascuno secondo le sue capacità.
Amalia Signorelli
Professore ordinario f.r. di Antropologia culturale
Napoli, 13 settembre 2008
tratto da
il blog di Amalia Signorelli
L’antropologia culturale italiana: 1958-1975
(...) con l’impietosa sincerità dei giovani:
“bello, professoressa, però la sua posizione teorica e metodologica non è egemonica”.
Come dargli torto?
Nel settembre del 1959 Amalia Signorelli consegnò a Ernesto de Martino
la sua Appendice a La terra del rimorso.
Signorelli lo informò che presto si sarebbe sposata andando a vivere a Cosenza.
Il severo professore si limitò a dirle freddamente:
«Lei è matta!»
il blog di Amalia Signorelli
L’antropologia culturale italiana: 1958-1975
(...) con l’impietosa sincerità dei giovani:
“bello, professoressa, però la sua posizione teorica e metodologica non è egemonica”.
Come dargli torto?
Nel settembre del 1959 Amalia Signorelli consegnò a Ernesto de Martino
la sua Appendice a La terra del rimorso.
Signorelli lo informò che presto si sarebbe sposata andando a vivere a Cosenza.
Il severo professore si limitò a dirle freddamente:
«Lei è matta!»
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