Proust
5 + 1
di
Marfoosh M. Celani
Da qualche parte c’è sempre stato
un soggetto ordinatore, c’è dell’ordine. La scrittura non è in fondo il modo in
cui un soggetto si mette in gioco nella pratica, nel luogo di questa
eterogeneità? Aggiunge Sollers “se anche non scrivesse niente, ciò non mi
disturberebbe affatto!”. Ordo nel lessico latino – è un noto
serial jacabookiller a ricordarcelo - significa disposizione, schieramento (di
truppe, di alberi, etc.) ma anche regolamento, misura. Ordinare si configura
come gesto che implica legge, legame, (…) l’idea di un’azione, di un intervento
attivo del soggetto ordinatore. Anche nel caso del disegno
ci troviamo di fronte all’idea di legame, di rapporto reciproco tra segni ed
anche qui, di legame implicante un progetto, un intervento dell’attore del disegnare. Designare in
latino, ma anche bezeichnen in tedesco, in inglese design,
significano tracciare dei segni collegandoli in un insieme sensato, ma anche
manifestare un’intenzione: designare, cioè nominare. In ogni caso un prendere
posizione, un decidere.
AA.VV., Di-segno. La giustizia nel discorso, a cura di
Gianfranco Dalmasso, Jaca Book, 1984
Era
l’estate del 1972, tra il 29 giugno e il 9 luglio. La calda estate di Cerisy
del 1972: s’avea da fare nientepopodimeno che la rivoluzione culturale. E i pilastri
erano Artaud e Bataille, che per Tel Quel (e poi per la “collana bianca” delle
edizioni Dedalo che avrebbe affiancato il lavoro della rivista”Il piccolo
Hans”) andavano a sommarsi al tripode Hegel, Marx e Freud, (3+2) Sade,
Nietzsche, (+2) Artaud e Bataille. E fanno 7.
Il
capopopolo Sollers, in una delle discussioni preliminari, situa la questione
numeraria (nonché seriale, nel senso di “posizionale”) con una certa efficacia.
“ Sentite: ci sono persone che vogliono che il sacro sia alla testa di tutto,
altre che l’inconscio sia alla testa di tutto, altre che vogliono che lo sia il
sesso, altre che vogliono che lo sia l’economia, altre che vogliono che sia
altra cosa, l’interesse della questione che tento di porre attraverso Bataille,
è che per l’appunto nessuna di queste istanze può pretendere di occupare un
posto” …
Cosa
fa Daniele nel 2016 (e che evidentemente nel 1972 manco era nato)? Convoca cinque
filosofi che hanno indagato la questione del segreto e della segretezza,
attraverso un confronto – spesso esplicito, talvolta latente – con l’opera di
Marcel Proust. Da Walter Benjamin a Georges Bataille, da Maurice Blanchot a
Jacques Derrida, passando per Gilles Deleuze. Con l’azzardo dell’esploratore
che si spinge in zone di confine.
Certo
c’è del testo, ma senza alcuna esegesi. In fondo "come il tempo per
Proust, anche l'opera è fondamentalmente perduta". E non ci disturberebbe
più di tanto se la Recherche non
fosse mai stata scritta (enunciato indossabile da Philippe Sollers ma non da
Daniele Garritano sorprendentemente sobrio e rigoroso per la sua età). “Sarebbe
la stessa cosa se riducessimo il marxismo alla questione del suo sedicente
testo, non è una questione di testo, anche se bisogna pure porsi tale questione
quando ciò si scrive come teoria, raggruppamento di concetti, ma infine non è
di questo che si tratta (…) La questione è quella dell’efficacia reale, nel
reale”. (Philippe Sollers, “L’atto Bataille”, in Bataille. Verso una rivoluzione culturale, Dedalo, 1974 (Union
Générale d’Editions, 1973), trad. di Marina Bianchi, pp. 50-51).
Poche
pagine dopo è Barthes che scandisce cosa e chi. “Il sapere dice di ogni cosa:
“Che cosa è?”. (…) Che cos’è questo testo? Chi è Bataille? (…) che cosa è
questo per me, che lo leggo? (Risposta: è il testo che avrei desiderato
scrivere)”.(Roland Barthes, “Le uscite del testo”, in Bataille, op.cit. (p.64).
Come
orientarsi in una zona di frontiera e scoprire quei luoghi di passaggio che
consentono l’attraversamento di ambiti teoretici differenti?
Il
fatto che Foucault non sia tra gli autori convocati a sostenere l'onere della
prova non fa che confermare la bontà della tesi da cui (Daniele) parte: la
filosofia del Novecento non può sfuggire a Proust, è costretta a farsi
interrogare da questa opera-non opera che a più livelli l'interpella e la
chiama in causa.
Cosa
fa dunque nello scritto introduttivo Moroncini, che ha proprio l'aria di essere
un bravo gattone, rimette ordine alla serie dei capitoli di Daniele: si apre
con i “Passages” di Benjamin e si chiude con Derrida, il più proustiano di
tutti. Segnatamente: 1. Benjamin o dell'infanzia; 2. Bataille o della ferita;
3. Deleuze o della gelosia; 4. Blanchot o del segreto; 5. Derrida o della
decostruzione (of course, della letteratura). Si osservi però che, per quanto filtrati
o modalizzati, la lexis che ne scaturisce ci dice che “i termini sono
compatibili con un ordine, ma non sono ancora ordinati”. (Antoine Culioli, La formalizzazione in linguistica, in
“Cahiers pour l’Analyse”, Boringhieri, 1972, p. 109).
Così,
ai cinque, Moroncini antepone Foucault, li fa ripartire da lì. Da quel passo de
Le parole e le cose dove, a
testimonianza del fatto che di fronte al nuovo assetto dei saperi scientifici e
delle forme di vita della modernità avanzata, i vecchi confini tra le discipline,
gli steccati fra i regimi discorsivi, i divieti di contaminare i generi, non
solo non abbiano più alcuna ragione di esistere ma debbano essere
programmaticamente infranti e superati, i nomi di Hegel, Marx e Freud vengono
affiancati da quelli di Sade, Nietzsche, Artaud e Bataille.
Sarà
che chi scrive è un gatto, dunque istintivamente attratto dalle topiche
(insomma dalle mappe, come dice con sorprendente semplicità un allievo della
media sicurezza della Machì), ma si tratta di supporre un otto interno e operare
un taglio che segua il tracciato inglobando il punto centrale del cross-cap e
“verificare che il taglio afferra qualcosa (…) come esso sia equivalente a una
corona circolare (…) una regione interna distinta da una regione periferica (…)
entrambi equivalenti topologicamente a una striscia di Möbius” (Diego
Arbizzani, L’uso lacaniano della
topologia, in “Cahiers pour l’Analyse”, Boringhieri, 1972, p. 242).
Qualcosa del genere accadde con Lacan, non un prius logico ma qualcosa che
ricorda l’assioma di Peano: Zero è un numero, ma non è successore di alcun
numero.
Zero
è Foucault. Muovere da Les Mots et les Choses cifra un disordine peggiore dell'incongruo, un gran numero
d'ordini possibili (...) senza legge e geometria, dell'eteroclito, e occorre
intendere questa parola il più vicino possibile alla sua etimologia:
nell’eteroclito le cose sono ‘coricate’, ‘posate’, ‘disposte’ in luoghi tanto
diversi che è impossibile trovare per essi uno spazio che li accolga, definire
sotto sotto gli uni e gli altri un luogo comune.
Michel
Foucault, Le parole e le cose.
Un’archeologia delle scienze umane, Rizzoli, 1967, pp. 5-8.
A
Moroncini però suggerirei, in quanto gatto, di far caso alla barriera molle
della fobia che ritroviamo nel caso del piccolo Hans ("le due figure della
barriera del dazio di fronte alla sua casa, quella reale con un ingresso
determinato e quello delle fantasie di Hans dove l'ingresso veniva immaginata
lungo la barriera. Anche lì una porta condannata al disuso e una barriera
indebolita da un'apertura immaginaria". (Virginia Finzi Ghisi, "La
barriera molle della fobia tra forme di vita e forme di sapere", in AA.VV,
Forme di sapere e forme di vita, Dedalo,
1981).
Poche
pagine più avanti, forse non a caso, spuntano le silhouettes di Sergio Finzi:
"La tesi è che il contorno non è ciò che sta, come una pellicola
invisibile alla periferia delle cose, assicurandone così la coerenza e la
tenuta, ma ciò che le penetra e le scinde. Detto altrimenti: il contorno non circonda
ma attraversa la cosa."
Troppo
a lungo infatti, afferma Franco Farinelli su tutt’altro versante, "si è creduto
che la geografia fosse il sapere relativo a dove le cose fossero, senza
accorgersi che in realtà, nell'indicare questo, la geografia decideva che cosa
le cose erano"
(F.Farinelli,
La crisi della ragione cartografica,
Einaudi, 2009).
Così
"Il senso del segreto", di Garritano e - pour cause di Moroncini, finisce col risultare un manuale di geografia
privo di qualsiasi carta, "in esso non soltanto si dà conto della
geografia umana di oggi, ma si ridefinisce la natura dei principali modelli di
descrizione del mondo in nostro
possesso" (F. Farinelli, Geografia.
Un'introduzione ai modelli del mondo, Einaudi, 2003).
E'
ancora Sergio Finzi a indugiare sulla nozione di silhouette per come "ci
si è venuta imponendo non dall'ascolto di un singolo paziente ma attraverso una
sorta di sezione trasversale che ha collegato molteplici 'punti di vista'
intorno alla stessa cosa. (...) La dinamica della silhouette sembra articolarsi
intorno all'alternativa: visto di faccia, visto di profilo" (Sergio Finzi,
Silhouettes, in "Forme di
sapere", passim). Una sorta di sezione trasversale, tra disegno, ombra,
contorni.
Questo
è il senso del segreto, di Proust e della magia sbiadita dei
"proustiani", degli intrappolati nella tela. E se Moroncini sostiene
un fermi tutti, si riparta da Foucault! lo psicanalista esorta a ripartire da
Wittgenstein.
"
Descrivi l'aroma del caffè! - Perché non si riesce? Ci mancano le parole? E per
che cosa ci mancano? - Ma da dove viene l'idea che una descrizione siffatta
debba essere possibile? Non ha mai sentito la mancanza di una descrizione del
genere? Hai cercato di descrivere l'aroma del caffè senza riuscirci? " (L.
Wittgenstein, Ricerche filosofiche,
Reprints Einaudi, 1974, p.209).
Proust
con Wittgenstein dunque, un po' come Kant con Sade. Con direzione temporale
invertita:
"L'esperienza
più recente, più fresca del fascicolo viene prima come 'copertina' e la fine è
data da quell'impressione con la quale in realtà la serie è cominciata". Ma son sempre disposizioni stratificate
concentricamente intorno al nucleo patogeno. Oltre che dato dal filo logico che
giunge fino al nucleo e - per dirla freudianamente - tende a segnare una
propria via, in ogni caso diversa, irregolare e tortuosa.
Il
compianto Ermanno Krumm avrebbe rimarcato "zigzagando dalla periferia
verso il nucleo, toccando tutte le stazioni come le mosse del cavallo
ritagliano i riquadri della scacchiera" (Ermanno Krumm, "Il passaggio
Charcot-Freud", in "Forme di sapere e forme di vita", cit.
p.101).
Scritto
il 7 luglio mentre al Cern di Ginevra si annunciava la scoperta della
particella Xi, la colla che tiene
unita la materia.
1953 LACAN Mythe individuel
« Le Mythe individuel du névrosé ou poésie et
vérité dans la névrose » est une conférence
donnée au Collège philosophique de Jean Wahl. Le
texte ronéotypé fut diffusé en 1953, sans
l’accord de Jacques Lacan et sans avoir été
corrigé par lui, (cf. Écrits, p. 72, note n° 1). La
présente version est celle transcrite par J. A.
Miller dans la revue Ornicar ? n° 17-18, Seuil,
1978, pages 290-307
(...) Si le père imaginaire et le père symbolique
sont le plus souvent fondamentalement distingués, ce n’est pas seulement pour
la raison structurale que je suis en train de vous indiquer, mais aussi d’une
façon historique, contingente, particulière à chaque sujet. Dans le cas des
névrosés, il est très fréquent que le personnage du père, par quelque incident
de la vie réelle, soit dédoublé. Soit que le père soit mort précocement, qu’un
beau-père s’y soit substitué, avec lequel le sujet se trouve facilement dans
une relation plus fraternisée, qui s’engagera tout naturellement sur le plan de
cette virilité jalouse qui est la dimension agressive de la relation
narcissique. Soit que ce soit la mère qui ait disparu et que les circonstances
de la vie aient donné accès dans le groupe familial à une autre mère, qui n’est
plus la vraie. Soit que le personnage fraternel introduise le rapport mortel de
façon symbolique et à la fois l’incarne d’une façon réelle. Très fréquemment,
comme je vous l’ai indiqué, il s’agit d’un ami, comme dans « l’Homme aux rats
», cet ami inconnu et jamais retrouvé qui joue un rôle si essentiel dans la
légende familiale. Tout cela aboutit au quatuor
mythique. Il est réintégrable dans l’histoire du sujet, et le méconnaître,
c’est méconnaître l’élément dynamique le plus important dans la cure elle-même.
Nous n’en sommes ici qu’à le mettre en valeur.
Le quart élément, quel est-il ? Eh bien, je le
désignerai ce soir en vous disant que c’est la mort.
La mort est parfaitement concevable comme un
élément médiateur. Avant que la théorie freudienne n’ait mis l’accent, avec
l’existence du père, sur une fonction qui est à la fois fonction de la parole
et fonction de l’amour, la métaphysique hégélienne n’a pas hésité à construire
toute la phénoménologie des rapports humains autour de la médiation mortelle, tiers
essentiel du progrès par où l’homme s’humanise dans la relation à son
semblable. Et on peut dire que la théorie du narcissisme telle que je vous l’ai
exposée tout à l’heure, rend compte de certains faits qui restent énigmatiques
chez Hegel. C’est qu’après tout, pour que la dialectique de la lutte à mort, de
la lutte de pur prestige, puisse seulement prendre son départ, il faut bien que
la mort ne soit pas réalisée, car le mouvement dialectique s’arrêterait faute
de combattants, il faut bien qu’elle soit imaginée. Et c’est en effet de la
mort, imaginée, imaginaire, qu’il s’agit dans la relation narcissique. C’est
également la mort imaginaire et imaginée qui s’introduit dans la dialectique du
drame œdipien, et c’est d’elle (307) qu’il s’agit dans la formation du névrosé
– et peut-être, jusqu’à un certain point, dans quelque chose qui dépasse de
beaucoup la formation du névrosé, à savoir l’attitude existentielle
caractéristique de l’homme moderne (...)
J’ai pris là un exemple bien particulier. Mais je
voudrais insister sur ce qui est une réalité clinique, qui peut servir
d’orientation dans l’expérience analytique – il y a chez le névrosé une situation
de quatuor, qui se renouvelle sans cesse, mais qui n’existe pas sur un seul
plan. Pour schématiser, disons que s’agissant d’un sujet de sexe mâle, son
équilibre moral et psychique exige l’assomption de sa propre fonction, – de se
faire reconnaître comme tel dans sa fonction virile et dans son travail, d’en
assumer les fruits sans conflit, sans avoir le sentiment que c’est quelqu’un
d’autre que lui qui le mérite ou que lui-même ne l’a que par raccroc, sans que
se produise cette division intérieure qui fait du sujet le témoin aliéné des actes
de son propre moi. C’est la première exigence. L’autre est celle-ci – une
jouissance qu’on peut qualifier de paisible et d’univoque de l’objet sexuel une
fois qu’il est choisi, accordé à la vie du sujet.
Albertine
era un po’ zoccola
Sette
livelli di crescente mimetismo
di
Gigino Celani, feat. Gerard Genette
1. (sommario
diegetico, che menziona l’atto verbale senza specificarne il contenuto)
“Marcel
parlò a sua madre per un’ora buona”;
2. (il
sommario meno puramente diegetico”, che specifica il contenuto):
“Marcel
informò la madre della sua decisione di sposare Albertine”;
(questi due primi livelli
corrispondono al discorso narrativizzato di G.G)
3. (parafrasi
indiretta del contenuto)
“Marcel
dichiarò alla madre che voleva sposare Albertine”;
4. (discorso
indiretto parzialmente mimetico)
“Marcel
dichiarò alla madre che voleva sposare quella sgualdrinella di Albertine”;
5. (discorso
indiretto libero)
“Marcel
andò a confidarsi con la madre: doveva assolutamente sposare Albertine”;
(questi tre
livelli corrispondono al “discorso trasposto” di G.G)
6. (discorso
diretto)
“Marcel
disse alla madre: - Devo assolutamente sposare Albertine”;
7. (discorso
diretto libero)
“Marcel
va a far visita alla madre: Devo assolutamente sposare Albertine”
(poco plausibile in Proust,
all’ordine del giorno a partire da Joyce)
E' essenziale
comprendere come lo spazio sia in posizione antecedente rispetto al territorio,
perché questo è generato da partire dallo stesso oltre ad essere il risultato
di un'azione condotta da un attore che realizza un programma a qualsiasi livello.
Appropriandosi concretamente o astrattamente (per esempio, mediante la
rappresentazione) di uno spazio, l'attore lo "territorializza". Per
costruire un territorio, l'attore proietta nello spazio un lavoro, cioè energia
e informazione, adattando le condizioni date ai fabbisogni di una comunità o di
una società. Lo spazio è la "prigione originaria" secondo la
definizione di Gunnar Olson, la "gabbia", secondo Jean Brunhes; al
contrario, il territorio è la prigione che gli uomini si costruiscono,
riorganizzando le condizioni di partenza.
(Claude
Raffestin, Dalla nostalgia del territorio
al desiderio di paesaggio. Elementi per una teoria del paesaggio, Alinea
Editrice, 2005, p.36
X si recava
ancora in un bugigattolo nel sottosuolo del quartiere Saint-Séverin.
- Signora,
domandava alla padrona, avete topi oggi?
La padrona
rispondeva all'attesa di X.
- Sì, Signore,
diceva, abbiamo dei topi.
- Ah...
- Ma, continuava
X, questi topi, Signora, sono belli questi topi?
- Sì Signore,
dei bellissimi topi.
- Davvero? ma
questi topi? ... sono grossi?
- Li vedrete,
sono topi enormi.
(Georges Bataille,
L'impossibile: storia di topi ;
seguito da, Dianus ; e da, L'Orestea, a cura di Sergio Finzi,
Guaraldi, 1973)
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