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martedì 25 aprile 2017

“Un digiunatore” di Eimuntas Nekrošius (Teatro Auditorium Unical, 24 aprile 2017)

E all’orizzonte solo guardiani e macellai
di Massimo Celani


“Certamente c’è un insieme delle tue esperienze pregresse, che vengono fuori dalle tasche, dalle maniche. Tutto ciò che sai. Come se volessi ripeterlo, non per tua volontà, è come se qualche demone ti spingesse a tornare ai tuoi vecchi modi. […] Sicuramente l’atteggiamento si acuisce con gli anni. Ma non sai di più con l’età. È un cliché che con l’età si acquisiscano saggezza e consapevolezza. Bisognerebbe dire che le perdiamo. Perdiamo consapevolezza, arguzia e sensi. Si sviluppa apatia. […] Preferirei che fosse il contrario, tuttavia è fisiologico […]
Eimuntas Nekrošius: dal documentario di Audronis Liuga “Allontanare l’orizzonte”


Maria Laura Santopaolo,
Il giardino segreto dell'intestino

Franz Kafka, 
L’avvoltoio
traduzione italiana a cura di Ervino Pocar,
Franco Maria Ricci, 1978

Nico Orengo, 
Figura gigante
Serra e Riva Editori, 1984

Marco Belpoliti, 
Confine. Vite immaginarie del clown
Elitropia Edizioni, 1986

Francesco Garritano, 
Sino alla fine del mondo. Aporie comunitarie
Jaca Book, 1999






Mancavo dall'Università della Calabria da parecchio. Tra gli acciacchi e le resistenze che potrei a ragione situare nel climax miserabile del mobbing (sport in cui eccelle un corpo docente bulimico e assetato di potere), me ne sono tenuto alla larga per qualche anno. In auto ieri sera, con Marina (che forse più di me ne ha subito gli aspetti più inospitali), il campus notturno, praticamente deserto, ci è sembrato più bello. Per giungere al TAU si costeggia l’università nella sua interezza, attraverso un percorso sinuoso come quello di un’ansa duodenale XXL (taglia da grandeur gregottiana che ora ci fa rimpiangere la compostezza raccolta dell’edificio polifunzionale e delle maisonettes degli albori). 




A spingerci fin lì “Un digiunatore” di Eimuntas Nekrošius, del quale lo scorso anno avevo bucato, pentendomene, “Paradiso”. Credo che procederò a una specie di recensione multipla, alla maniera di Alfabeta dei vecchi tempi. Non perché l’opera di Nekrošius non sia meritevole di un approfondimento in termini di politica ed estetica, intimamente legate fra di loro, tra il bello come oggetto e il valore della raffigurazione, sulla fattura dell’opera stessa. Solo perché sarebbe troppo per le mie spalle teoriche, capaci di reggere solo un approccio da spettatore saltuario e per di più distratto.
Il riferimento multiplo, a più testi, serve a situare il contesto della fruizione, sia nel senso dell’ambiente (l’auditorium dell’Unical in una bella serata di aprile) che in quello – anche fossero solo associazioni d’idee – ove situare culturalmente un digiunatore in relazione ai precursori e le porzioni d’intertestualità a mia disposizione. Nel migliore dei casi potremmo dire che mi limiterò a una lettura emergenziale, come direbbe Maurizio Ferraris per riferirsi a ciò che emerge, che viene a galla.

Ci sono molti ragazzi nel foyer, pochi docenti, quelli più curiosi e irregolari, i non baroni. C’è anche il rettore, che spunta da una stanzetta insieme a Fabio, a fare gli onori di casa. Quella di Crisci, che non conosco personalmente, è una presenza bonaria. Da buon gustaio, esente dai fantasmi ingenui di divenir intelligente attraverso la magrezza. Lo osservo caracollare qui e là finché non prende posto in prima fila, senza soluzione di continuità con la scena in penombra. Certo non è un digiunatore. E comunque non ho incontrato gli smilzi paranoici che da qualche tempo han preso a fargli la guerra.

La scena di Ein Hungerkünstler (letteralmente "Un artista della fame") è un semicerchio, mentre i personaggi evocano sufficientemente il circo. I tre “assistenti” in scena, dalla statura decrescente, sono un po’ i guardiani del digiunatore, un po’ clown. Ostentano tre raffigurazioni anatomiche dello stomaco: small, medium, extra-large. 



L’atmosfera è quella del Barnum, di Freaks, di Tod Browning o di Leslie Fielder, solo più rarefatta. Il digiunatore è da inscrivere nella serie prodigiosa: nani, gemelli siamesi, giganti, donne barbute, ermafroditi. Ricordo Ugo Battista, l'uomo più alto delle Alpi Marittime, strappato dal suo lavoro di boscaiolo ed esibito in tutte le città della Francia. Attrazione italiana dei Padiglioni delle Meraviglie, spacciata come francese, poi emigrato a La Merica, causa crollo dell’audience, per morirci giovane e triste (Nico Orengo, Figura gigante, Serra e Riva Editori, 1984).

"Ho contato mentalmente nel buio le costole. Mi sono soffermato su ciascuna di esse e su tutte insieme. (...) Devo rendere semplice e leggera l'esibizione. Da oggi ho deciso di non mangiare più, bevo e respiro soltanto. Ho paura di fallire e vorrei rimandare il debutto, ma l'impresario me lo impedirà. Lui possiede la determinazione di cui io sono privo. (Marco Belpoliti, Confine. Vite immaginarie del clown, Elitropia Edizioni, 1986, pp. 8-9).
"Siamo in tre nello spazio ristretto, ma riusciamo ugualmente a non importunarci. (...) E' vero: il cibo è abbondante e il giaciglio caldo, mentre molti dei nostri simili vivono in condizioni disastrose, in luoghi umidi e malsani, costretti a procurarci il cibo nel più abbietto dei modi." (Confine, pp.- 15-16).
"Per alcuni anni abbiamo battuto le piazze dei paesi lavorando sotto una tenda rettangolare" (il particolare non sfuggirebbe al Fabio Vincenzi catalogatore di gabbie intese come loci kafkiani).(...) Lo so, non avremmo dovuto. Il leone è il circo; i bambini vengono per lui, per vederlo ruggire e saltare nel cerchio di fuoco. Ma la gestione dei circhi famigliari non è una cosa molto semplice, signori giurati. Siamo stati costretti dal bisogno. Per questo, signori, siamo solo gente da compiangere."(p.26).



E’ lo stesso Kafka a indirizzarci in direzione circense: "In questi ultimi decenni l’interesse pei digiunatori è molto diminuito. Mentre prima meritava metter su spettacoli di questo genere per proprio conto, oggi sarebbe assolutamente impossibile. Erano altri tempi quelli. Tutta la città si occupava allora del digiunatore; a ogni giorno di digiuno aumentava l’interesse del pubblico; tutti volevano vedere il digiunatore, almeno una volta al giorno; e negli ultimi giorni c’erano perfino degli abbonati che sedevano intere giornate davanti alla sua piccola gabbia".
Ammetto, nel tornare a casa, di essere andato a cercare il prezioso libriccino edito nel 1978 da Franco Maria Ricci, “L’avvoltoio”, nella collana La Biblioteca di Babele diretta da Borges, con la traduzione a cura di Ervino Pocar, che contiene oltre “l’avvoltoio” e “un digiunatore” altre meraviglie quali “Relazione per un’Accademia”, “Sciacalli e arabi”, “Un messaggio imperiale” e “Durante la costruzione della muraglia cinese”. Ho poi curiosato nel web, trovando anche qualche stroncatura della messa in scena del lituano. A fugare fraintendimenti sarebbero bastate le poche righe di introduzione di Borges: “La più indiscutibile virtù di Kafka è l’invenzione di situazioni intollerabili (…) L’argomento e l’ambiente sono l’essenziale, non le evoluzioni della fabula né la penetrazione psicologica”. 


                               photo: Kim Mariani

Cosa si pretendeva facesse Nekrošius, se non sottrarre ulteriormente, optare per la sola descrizione («Un racconto? No, niente racconto, mai più» scriveranno poi Blanchot e – a margine – Derrida (cfr. oltre che La follia del giorno, Francesco Garritano, Sino alla fine del mondo. Aporie comunitarie, Jaca Book, 1999). Così vengono omessi anche i pochi dialoghi.
“Perché digiunare devo, non posso fare altrimenti”
“To’, guarda un po’, e perché non puoi diversamente?”
“Perché non ho potuto trovare il cibo che mi piace. L’avessi trovato, credimi, non avrei fatto chiasso e mi sarei impinzato come te e tutti” (un frammento rimane tra i sopra-titoli, come “un mangiare a man bassa”). Non ho trovato il cibo che mi piace è un enunciato della dinamica anoressica e la questione non a caso preoccupa molto Julie, la madre di Kafka, che così scrive a Felice Bauer il 16 novembre 1912: «So già da molti anni che nel suo tempo libero si dedica allo scrivere. Ma io lo credetti soltanto un passatempo. Ciò non comprometterebbe la sua salute se dormisse e mangiasse come altri giovani della sua età. Dorme e mangia invece così poco da minare la sua salute e io temo che metterà giudizio solo quando, Dio non voglia, sarà troppo tardi. Perciò La prego vivamente di farglielo notare in qualche modo e di domandargli come vive, che cosa mangia, quanti pasti fa, in genere come suddivide la giornata» (F. Kafka, Lettere a Felice, Mondadori, 1972, p. 64). Ma questo è un discorso che ci porterebbe lontano, e non perché nella scena anoressica non ci sia del teatro.
Poche le invenzioni sceniche, a parte il digiunatore donna, una tonica Viktorija Kuodyte che canta benissimo ("si metteva a cantare finché le forze glielo consentivano", sempre per antifrasi per ribadire che non si alimentava "per far intendere a coloro quanto fossero ingiusti i loro sospetti. Ma questa era una magra risorsa: quelli si stupivano soltanto della sua abilità di mangiare persino cantando". Detto per inciso, i sospetti sulla veridicità dei digiuni hanno accompagnato perennemente gli scioperi della fame di Marco Pannella e dei radicali.



C'è poi in scena, in angolo, un piano verticale. E i pianoforti a teatro sono come le pistole a cinema: se ce ne è uno, prima o poi suonerà (anche se per una breve, intensa e arbitraria pausa di Viktorija Kuodyte). Poi si segnala un misterioso mettere e levare di calzini e la misurazione della circonferenza dei polsi attraverso il cinturino di un orologio, condensazione e spostamento del passare "un braccio attraverso la grata affinché se ne palpasse la magrezza" e "del ticchettio, per lui molto importante, dell'orologio". Forse pure l'ostensione del sotto di una sedia, nel cui vano avrebbe potuto nascondersi qualche cibaria. Il tutto sottolineato dal giro rituale dei clown "hoplà".
Nient’altro che descrizioni asciutte. Borges: “Per l’incisione perenne gli bastano poche righe”. E, poco più avanti: “L’elaborazione, in Kafka, è meno ammirevole dell’invenzione”. Il ragionamento vale, tale e quale, per Nekrošius e la sua isotopia assoluta. Un raffronto in termini di scrittura scenica andrebbe semmai fatto con la trilogia kafkiana di Giorgio Barberio Corsetti, con le cautele di una comparazione impossibile, quella tra romanzi e racconti brevi. Forse pure con “Sacco” di Remondi e Caporossi visto non so più quanti anni addietro al Teatro dell’Acquario.



I suoi digiuni prolungati avvenivano all'interno d'una gabbia esposta al pubblico (che nella messa in scena non c'è, salvo alludere al fatto che sia esterna, il teatro, l'università tutta) "Oltre agli spettatori occasionali c'erano anche guardiani fissi, scelti dal pubblico, ed è strano che di solito fossero macellai, a tre per volta, con l'incarico di tener d'occhio il digiunatore giorno e notte, affinché in qualche modo misterioso non prendesse alcun alimento". E questo anche se "sapevano benissimo che durante il digiuno il digiunatore mai, in nessun caso, neanche costretto, avrebbe mangiato alcunché: glielo vietava il rispetto per la sua vita".
Valentina Valentini, per cifrare l'opera di Nekrošius, parla di "classica modernità". Azzarderei timidamente anche una "profanazione del sacro", anche qualora fossero semplici clownerie.
(Paul Bouissac, Analisi semiotica dei numeri di clown, in Etnosemiotica. Questioni di metodo, a cura di Maurizio Del Ninno, Meltemi, 2007).
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Per i raffronti, l’allargamento dei contesti e le associazioni cosiddette libere sono grato a Valentina Valentini, oltre che a Dora Ricca e Antonello Antonante che ho incontrato in sala con sommo piacere e che per più di trent'anni hanno fatto molto per squarciare la mia inamovibilità da cosentinazzo.

1 commento:

  1. Alma Pisciotta:

    Troppi gli stimoli per un’analisi di “A hunger Artist”, ma un pensiero mi va di condividerlo. Uno solo, tra tutti quelli che mentre guardavo gli attori sul palcoscenico mi si sono, naturalmente, affollati in testa, conoscendo il testo kafkiano. Riguarda l’artista come professione o, meglio, come scelta di vita. Un argomento sul quale sto riflettendo, in altri contesti ma non troppo “altri”, e che, quindi, come un boomerang mi è tornato indietro grazie alla messinscena di Nekrosius. Quali digiuni comporta oggi essere un’artista? In quel disperato tentativo, che egli fa proprio, di colmare una diffusa inappetenza nei confronti dell’esercizio di un pensiero critico o di sfamare bocche già sazie di immagini e contenuti mediatici? Che vita conduce chi ha scelto di seguire la propria passione (nella doppia accezione di forte sentimento che anima un’azione e, al contempo, di sofferenza fisica)? L’artista non è certo l’unico a digiunare per necessità, “a soffrire la fame”. Sono visibili a tutti, le grandi sculture di indumenti lasciati agli angoli della strada come rigurgiti di un consumismo bulimico che ignora gli affamati di lavoro e fa di essi tanti protagonisti del grande spettacolo dei “casi umani” da strutture d’accoglienza. Il “circo” di Nekrosius è fuori dalle mura del teatro. Simile a quel vagare degli attori da un punto all’altro del palcoscenico, per spostare e rispostare questo o quell’altro oggetto e che a volte pare senza scopo, è lo smarrimento di chi cerca un proprio posto nello spazio sociale, costretto a tornare sui suoi passi, ad indugiare nello stallo dello stato dell’arte (l’immobilismo dell’autorità, la sua più totale inefficacia e indifferenza). “Turisti contro vagabondi” scriveva Bauman. E così l’artista, dall’arte del digiuno fa il digiuno con l’arte, per un mestiere che, troppo spesso ormai, non paga; raccontando storie di impresari, pseudo tali (degni della penna di Collodi), che ti abbandonano giusto qualche istante prima del debutto fuggendo via col magrissimo “bottino” in tasca. Chi vive di “spettacolini”, non per sminuirne la portata artistica e culturale ma piuttosto per sottolinearne quella economica, dorme poco e non mangia per far mangiare l’auto, quando ad ingaggiarlo è chi gli offre solo il “rimborso delle spese” (in primis le istituzioni) che se fosse davvero tale dovrebbe consentirgli, quanto meno, di farla…la spesa al supermercato! Oggi l’artista, nella maggior parte dei casi, non è solo colui che fa un mestiere appreso da altri, o che fa un altro mestiere per sopravvivere e nel tempo libero si dedica all’arte. Tra essi, molti escono dalle fila dei dottori delle accademie universitarie e non, parlando minimo due lingue e, se ne hanno avuto la possibilità perché hanno dovuto farlo indubbiamente a spese loro, si sono già esibiti all’estero più volte. Il digiuno è una prassi piuttosto diffusa nel mondo, alla quale alcuni si arrendono, lasciandosi morire, assuefatti dal non sentire neanche più lo stimolo della fame. Riconosci un digiunatore forzato dal viso di chi, pallido, non riesce a rispondere alla fatidica domanda “Che lavoro fai?”, perché ha la bocca troppo piena di bile per rispondere.

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