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martedì 12 marzo 2019

La banalità del nome



Una cosa perennemente innominabile

di Massimo Celani


 Nomina non sunt consequentia rerum

Ecco invertito il rapporto tra il nome e la cosa. E’ un celebre ribaltamento lacaniano[1]. Recalcati è tanto bravo ma per favore non si supponga un suo copyright su qualsiasi questione che possa attenere a quel campo. Trattasi di rivisitazione blasfema in chiave di marketing e di pubblicità delle sempre spinose questioni di filosofia di linguaggio. I nomi, le parole, sono conseguenza delle cose? O forse possiamo affermare esattamente il contrario? E cosa vuol dire “conseguenza” in questo caso?

Ciò che con mesto tecnicismo i pubblicitari definiscono naming non è altro che il camuffamento di una pratica emula del padreterno. Coincidendo la creazione del mondo con un atto di nominazione. Più sobriamente o – perlomeno – con competitività trattenuta nei confronti della sfera celeste, si tratta di trovare un fondamento alla marca (branding è infatti la funzione correlata).




Si fa presto a dire “naming”

Mettiamola così (con la guida di Barbara Cassin[2]), vi sono due opposte concezioni del logos: da un lato l'ontologia, lungo una linea che va da Parmenide a Heidegger, per la quale si tratta di dire ciò che si è; dall'altro la logologia, dai sofisti a Lacan, per la quale l'essere non è altro che un effetto del dire.
Per questo tende a divenire - santo Mallarmé - quella moneta consunta che ci passiamo in silenzio, rumore, brusio del non senso.
“Dar voce, evocare, significa costituire nel campo dell’essente ciò che non vi era” [3].
La voce, in quanto appello all’essere, crea dal nulla quello che non era: la vocazione soggettiva dipende dunque dall’essere chiamato del soggetto a un suo posto per l’Altro. E’ questa la funzione essenziale di quell’Altro, primario per ogni soggetto, che chiamiamo con qualche approssimazione la madre. La madre è chi insegna a parlare, è chi chiama [4]  ad essere un soggetto. Tale vocazione essenziale del soggetto è significata ed è rappresentata nell’assegnazione del nome, ma non coincide con essa. Il fatto di essere individuato da un nome proprio assegna al soggetto un posto nell’essente. Ma il nome proprio può solo rinviare a tale vocazione, non esprimerla.
Il vero nome del soggetto non è il suo nome proprio, ma la vocazione stessa che lo ha esposto alla luce del simbolico[5], è l’attesa a riempire la quale esso è stato chiamato.
La parola è fermento. La parola piena, quella poetica, o perlomeno non consunta, è lievito e azione non vista. L'essere non è altro che un effetto del dire.

Questioni di eufonia

“Perché dici sempre Gianna e Margherita, e mai Margherita e Gianna? Preferisci Gianna alla sua sorella gemella?" - "Niente affatto, ma così suona più gradevolmente"[6].
Ecco, i pubblicitari, quelli bravi, anche senza aver letto Jakobson, dicono sempre Gianna e Margherita e – pure -  l'orribile Oreste ("perché orribile, perché non terribile, tremendo, insopportabile..." - "non so perché, ma orribile gli sta meglio"). Alcuni poi, con un guizzo, giungono a inventare “il rum più bevuto nei peggiori bar di Caracas”, contribuendo alla liquidazione di una trita rassicurazione borghese, l’ipostasi del migliore.
Ovviamente – per dirla con Blanchot – “l’effetto di rarità è proprio al frammentario”. Ma questo riguarda sia il poetico, sia il pubblicitario. La cosa è ben presente a Giovanni Giudici: “Scrivere testi pubblicitari e scrivere versi sono due attività che hanno in comune innanzitutto una condizione, per così dire, negativa: la presunzione, da parte di chi le consideri dall’esterno, della loro facilità. Ciò si può spiegare probabilmente col fatto che testi pubblicitari e poesie sono di solito composizioni brevi o relativamente brevi. (…) aiuta a capire come mai le due attività corrispondenti (quella di copywriter e quella di scrittore di versi) siano afflitte, ciascuna per suo conto, da un così alto tasso d’incompetenza ossia, in parole povere, dalla presenza di un così alto numero di persone che si ritengono in grado di esercitarle”[7].  
Giovanni Giudici, come molti altri, ha a lungo tirato a campare con la scrittura pubblicitaria. Con la consapevolezza di ciò che accomuna e differenzia due diversi mestieri di scrivere. Due mette in gioco lo splendido scarto consistente nel non rimbecillirsi con uno solo, due mestieri imparentati da “un’incredibile semplicità”. 

Non a caso, poco più avanti, ci s’imbatte in Le onde di Pasternak: “Imparentati a tutto ciò che esiste, convincendosi | e frequentando il futuro nella vita di ogni giorno, | non si può non incorrere alla fine, come in un'eresia, | in un'incredibile semplicità. (…) Più d'ogni cosa è necessaria agli uomini, | ma essi intendono meglio ciò che è complesso”. 


(se vuoi, vai a 2'10")


Brand est consequentia naming [8]
Per i pubblicitari il “logotipo”, amichevolmente abbreviato “logo”, sta per logogram o logotype: "logo, the lay out of a sponsor's name, brand or slogan". Per quanto siano anglofoni, non sfugge loro il fatto che tutto gira intorno al logos. E nemmeno che il nomen sia una specie di numen. “… Qual è l’idea di Agostino quando identifica nomen e verbum ? (…) E’ esattamente quello che qui chiamiamo simbolo. Il nomen è la totalità significante-significato, in particolare in quanto serve a riconoscere, dato che su di essa si stabilisce il patto e l’accordo. E’ il simbolo nel senso di patto. Il nomen si esercita sul piano del riconoscimento. Questa traduzione è conforme al genio linguistico del latino, dove esiste un buon numero di usi giuridici della parola nomen. (…) Possiamo così far riferimento al gioco di parole di Victor Hugo – non bisogna credere che Hugo fosse un pazzo – nomen, numen. La parola nomen ha in effetti una forma originale che la mette in rapporto con numen, il sacro”. [9] 

Una esplicitazione che avviene con cinquant’anni di anticipo sull’idea di patto col lettore-consumatore e di “marca relazionale”.  Non da oggi siamo adoratori della merce. Marx sosteneva che per cercare d’intenderne la logica occorreva frugare nel nebuloso mondo delle religioni.
L’ossessione del brand, della marca, a cui ci ha abituati il perverso dispositivo dell’advermarketing, ha però il pregio di aver capovolto l’idea di stigma e di marchio d’infamia[10].  Gioco d’anticipo, “mi marco da me” sembra dire il branding.
Prima che lo facciano gli altri, concorrenti scomunicanti, ne stabilisco le forme e il sito, il come e dove marchiarmi. In altre parole, il posizionamento.
Altro che “no logo”! Se non si può uscire dal linguaggio, non si potrà uscire dalla retorica. E dunque nemmeno dalla non-marca. La dimostrazione ce la fornisce Jacques Séguéla coi “prodotti liberi”. Anche le smarche finiscono con l’avere un brand e una buona dose di personalità.


Repetita iuvant
 (poteri della diafora)





In questi casi la tautologia è solo apparente: l’huile Huile e le café Café (facilitatore il secondo termine in maiuscolo), vale a dire l’olio olio e il caffè caffè stanno per il vero olio, il vero caffè.
Poteri della reduplicazione[11] e della diafora[12]. Completa il tutto la bellissima metafora della libertà che si affaccia nel claim: “les produits libres”. In Italia i farmaci a brevetto scaduto li si sono definiti “generici” o “equivalenti”[13]: in fondo ammettendo di essere una copia, una smarca. Definirli liberi ha evidentemente una marcia in più. Liberi da cosa? Dalla tirannia della marca. “Sans nom. Aussi bons. Moins cher”. Ovviamente – ma poco importa -   una contraddizione in termini, giacché son marcati Carrefour.

La sinistra-sinistra

Ammettiamo che la nostra amica e compagna Pina Pica-Picierno abbia deciso di dedicarsi all’agriturismo. Come potremo aiutarla a trovare un bel nome per la sua nuova azienda? Proviamo un po’:

(con understatement che rasenta l’anonimato)    il cavallo ?
(con melensa evocatività)                                     il destriero ?
(con evocatività di segno opposto)                        il ronzino ?
(ambiguizzando su un genere musicale)                hip-hop ?
(con disinvoltura tecnologica)                               farmer ?
(con sineddoche abusata)                                      le selle ?
(con citazione vetero-comunista)                          lo zoccolo duro ?
(con evidente posizionamento agro-erotico)         crazy horse ?
(o con umorismo tutto meridionale)                     ‘u ciuccio ?




E se dovessimo contribuire a individuare una nuova formazione, “una cosa di sinistra”, o come suol dirsi un rassemblement di tutti quelli che non hanno creduto al progetto PD?
La diaspora della sinistra italiana, per restare nella storia recente dei mal di pancia interno o intorno al Partito Democratico, in prossimità delle Idi di Marzo (data che non senza ironia rievoca l’assassino di Cesare), conta una ventina di liste tra associazioni vecchie e nuove formazioni politiche. (Cfr. l’articolo, con relativa infografica, di Salvatore Cannavò[14].)
Aprì le danze (si fa per dire, giusto per cominciare da qualche parte) nel 2015 Stefano Fassina con “Futuro a Sinistra”, denominazione - che nessuno ricorda - che dichiarava un posizionamento e una reason why, oggi trasformatasi in “Patria e Costituzione”, a sentir loro formazione del “sovranismo di sinistra”. Vada per la Costituzione, ma il riferimento alla patria sembra un’invenzione della Santanché. 




Tra i tanti coriandoli si ricordano “Liberi e Uguali”, con tanto di pasticcio politically correct riverberato sul logo (liberi E uguali) con la E di Emergency (realizzato da Alberto Civati, il fratello di Pippo) e “Potere al popolo”, un sintagma con l’anacronismo tipico della classicità de sinistra ginecologicamente abbreviato PAP. Un nome ridicolmente passatista che fa il paio con la tristezza cosmica della portavoce.





 Segnatamente premiate dal 3,4 e l’1,1 %. 

Ovviamente tra le disiecta membra sono ancora ostinatamente esistenti il Partito Comunista (Marco Rizzo), il PCL (Marco Ferrando), Falce e Martello, Rifondazione Comunista (reduci vari), Sinistra Anticapitalista (Franco Turigliatto), Giorgio Cremaschi (USB-Pap). Riaffioreranno come splendidi detriti del secolo scorso.[15] 







Complessivamente – e mi si perdonerà la perentorietà del giudizio - come avrebbe chiosato Salvatore Conte, uno dei massimi filosofi della prima serie di Gomorra: “na banda 'e sciemme ca nun trovano manc'o cazzo int''a mutanda”. Sempre presenti, impassibilmente uguali al settarismo di sempre, insomma a se stessi, quando invece ci sarebbe bisogno di ascesi, vale a dire di elaborare il lutto della propria scomparsa
.





Meglio “Sinistra Italiana” abbreviata “Si” di Nicola Fratoianni, insieme a “Possibile” (che nel frattempo Pippo Civati ha lasciato in custodia a Beatrice Brignone) forse gli unici brand ancora retoricamente sostenibili.[16] 












Mentre Piero Grasso (LEU) prende tempo, Laura Boldrini aderisce a “Futura” (Marco Furfaro col sostegno di Maurizio Acerbo, per una sinistra Luciodallesca buona almeno a risparmiare sul jingle. “E se è una femmina si chiamerà Futura”. Peccato che “Il suo nome detto questa notte / Mette già paura”.


 Parole vuote, nomi che non nominano niente. Peggiorati da una patetica nostalgia che volge a uno psicotico distacco dalla realtà. Si aggiunga la totale incompetenza retorica. Quanti anni sono che Ogilvy ci mette in guardia dagli acronimi, dall’evitare d’infilarci nella selva delle sigle indecifrabili e dei logotipi inutili? Chi è più in grado di decifrare Fiat, IBM, CGIL? Figuriamoci MDP (Movimento Democratico e Progressista). Chi di riconoscere un marchio che non sia quello di Nike e Cocacola?  Divisi tra il vintage (icone e intertestualità vetero-comuniste), il presuntuoso e l’effimero, nessuno ha mai pensato che un brand si crea grazie al tempo, alla pressione sui media, ai budget, ai dollari investiti del billing. Quando invece per Ogilvy “la pubblicità è qualcosa di utile. Perché, quand’è onesta, c’informa su un nuovo prodotto, che forse potrebbe aiutarci”[17].

Quando si tratterebbe di “rendere ragione del singolare e dell’irriducibile”[18].

Quando un nome viene, esso dice subito più del nome, l’altro del nome e l’altro come tale, di cui annuncia per l’appunto l’irruzione. [19] E – come scriveva Pasternak – “non si può non incorrere alla fine, come in un'eresia, | in un'incredibile semplicità”.

"C'è del nome nel luogo come c'è del luogo nel nome.
Il nome è il garante dell'identità, ma anche della continuità: ciò che sparisce, se non sparisce il nome, non sparisce del tutto. " [20]



Inscape e landscape



Muoviamo dalla nozione di inscape formulata da G.M. Hopkins, ovvero il senso fulmineo dell'evocare appieno la cosa. Tutto il discorso pubblicitario, una volta abdicato a qualsiasi pretesa persuasiva, appare oggi come un grande dispositivo produttore di luogo, di paesaggi. Compreso il non luogo angoscioso di chi si è giustamente stufato di votare per il male minore.

“Sinistra-sinistra” dice con sufficiente pragmatismo di una ritrovata umanità, oltre che di una – momentanea, transitoria, in progress - parvenza di unità. Dove cavolo è andata a finire tutta la proverbiale intelligencija della sinistra, per non accorgersi che – solo per fare un esempio – “Casa Pound” è oggettivamente un bel brand, ritaglia con precisione un paesaggio (per quanto – povero Ezra – frutto di un radicale fraintendimento)? Davvero occorre prepararsi a una riedizione di MDP, LeU e PaP?

Occorre muovere dai luoghi abitati, dai luoghi più frequentati: quelli della credenza. “Ciascuno abita il luogo del suo credere”, avrebbe detto J-T Desanti

Ci vuole un lampo? Ci vuole un’astuzia? Ci vuole un mito” annoto – per serendipity, per puro culo (sia chiaro limitato allo sfogliare dei libri) – dal carteggio di Maurice Clavel con Jean-Toussaint Desanti. Continuando si parla del noi, della cattura pronominale di cui la sinistra è evidentemente orfana.

Così, anche chi ha consapevolezza che l’io sia il più lurido dei pronomi non trova riparo nel noi. Per quest’ultimo a volte si prova una tenera nostalgia, ci si illude un po’, poi si prendono nuove batoste. E’ la trappola della credenza, un fenomeno eminentemente plurale: la ricerca di un amalgama, o perlomeno di un cuscinetto, attraverso il quale nuovi io, nuovi soggetti possano prendere la parola e - in fondo - agire. [21]


E’ almeno dal 2011, forse pure prima, che Žižek ha “osservato con preoccupazione ciò che può accadere come reazione alla crisi, per esempio l’orribile ascesa di una destra xenofoba in tutta l’Europa dell’Est e del bisogno di qualche ancora di stabilità morale [22], forse sottovalutando che la stessa piega l’avrebbero presa pure l’Italia, la Francia, la Spagna e la Germania.
Sempre acciuffando un lembo di ragionamento di Žižek, “siamo capaci di immaginare molto facilmente la fine del mondo, ad esempio un asteroide che colpisce la terra e la distrugge, l’abbiamo vista tante volte al cinema. E invece non riusciamo a concepire un cambiamento sociale anche piccolo”.[23]
Una osservazione del genere apre a qualcosa di programmatico, ma non ce ne è traccia, salvo forse in quel “Articolo 1” che muove da una ristrutturazione retroattiva del passato per morirti in mano il rigo appresso con quel “Movimento Democratico e Progressista”. 



D’accordo per Movimento invece di Partito (Cinque Stelle docet), ma vengono in mente le pungenti interrogazioni di Jacques Lacan a proposito di “Comunione e Liberazione”: proprio sicuri di quella “e”? e perché non “o”, Comunione o Liberazione. Niente frasi narrative, niente verbi di progetto, zero pensosità, zero appeal.
Così persino « Forza Italia » resta un capolavoro di inclusione e di sproni, mentre una Lega-senza-Nord si afferma pericolosamente, grazie a una semplice sottrazione, in tutto il Paese. Nel frattempo il PD continua imperterrito a scoraggiare simpatizzanti e iscritti. Roberto Jacquette, celui qui jeûne pour des raisons futiles - Roberto avec une courte veste - hier soir sur laSept rugissait-il: "coloro che hanno massacrato per 5 anni il partito democratico, distrutto la nostra comunità, con noi non ci tornano più: Bersani, Speranza, D'Alema, Emiliano ...". Tutta gente che - secondo Jacquette - mentre i nostri militanti piangevano nelle sezioni brindava a champagne in un hotel romano.  Come dire; “non faremo prigionieri”. Quel “noi” ha l’aria del sintomo. Fa il paio con la paranoia renziana, “non faremo quello che è stato fatto a noi”. Con l’aggravante che nel caso di Renzi si trattava di un plurale majestatis. Hai voglia a dire che quel giovanotto che un giorno si accorse che il PD era “scalabile” è una risorsa. Il cosiddetto ticket Ascani - Giachetti , polpetta avvelenata lasciata cadere in zona Cesarini, la dice lunga sul gregarismo (quanto manca Wilhelm Reich) o  – come scriveva Lacan su Scilicet – sul “perfezionarsi dell’ubbidienza”. Quello dei renziani appare sempre più un caso clinico, in materia di misconoscimento della realtà e di masochismo. Come mai il PD e la sinistra-sinistra non considerano il bacino di cattura dei nuovi votanti M5S del 2018 proveniente al 14% dal PD e al 13% da Scelta Civica (da sommarsi all’elettorato storicamente malpancista di sinistra)?

Evidentemente serve di corsa un altro “possibile” che si schieri dal lato di Riace. Il fratello del Commissario Montalbano più di andare a trovare il collega Chiamparino e rassicurare i moderati sulla Tav non poteva fare. Ma non è quello il punctum.

Ciò che punge è la cosiddetta chiusura dei porti, degli Sprar e dei centri di accoglienza senza aver pensato a una degna alternativa. Punge la morte di Becky Moses, per due anni ospite del Centro di accoglienza straordinario (Cas: il paese-albergo di Riace: evidentemente il Maligno si mimetizza negli acronimi), dove aveva una casa e stava imparando un mestiere. Poi, il Cas è stato chiuso e Becky è finita arsa viva tra le baracche di San Ferdinando. Il 16 febbraio stessa fine per Al Ba Moussa, un senegalese di 28 anni che si faceva chiamare con un nome italiano: Aldo. Analoga sorte di Suruwa Jaithe, un ragazzo gambiano di appena 18 anni e di Soumaila Sacko, ucciso nella stessa zona da un colpo di fucile. L ’abrogazione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, gli allontanamenti e tutti gli ingredienti del decreto insicurezza predisposti da Mr. Ruspa sono da situare parecchio oltre il confine del preterintenzionale e della responsabilità oggettiva. Così, mentre s’indugia sull’epistemologia (sarà razzismo, autoritarismo o fascismo?) l’Italietta codarda e voltagabbana si ritrova un Ministro bugiardo, provocatore e delinquente, che finge di agire “nell'interesse pubblico”, in realtà di un drappello individuato con somma precisione da Gino Strada: "Metà fascisti, metà coglioni” (… “non sottilizziamo sulle percentuali: ci sono alcuni fascisti coglioni"). Spaccare il M5S è cosa buona e giusta. E riportare a casa, in una casa qualsiasi ma poco-poco ospitale, randagi, nomadi e transfughi, ritrovo eterodosso dei senza-casa. Degli intrappolati fuori, di chi aveva lasciato le chiavi dentro, magari fidandosi dei nomi dei candidati alla presidenza della Repubblica (Rodotà, Zagrebelski, Strada, Gabanelli). Dalla parte della Costituzione e senza fantasmi centristi, incapaci di concepire “un cambiamento sociale anche piccolo”. Quale ad esempio ridiscutere le logiche di una nuova denominazione. [24] “Sinistra-sinistra” in tal caso usa la diafora ovvero la distinctio non solo per dire “veramente sinistra” ma pure sul calco di “l’acqua che elimina l’acqua” (il che vuol dire “che facilita la diuresi”, che fa fare tanta plin-plin) e che in Italia si è presentificata in tempi rapidissimi una destra-Destra alla quale sarebbe il caso di opporsi. Dovrebbe esser ormai chiaro che – oltre a “né destra né sinistra” la single minded proposition del 50% di coglioneria e di fascismo, è la nozione di centro che fa acqua da tutte le parti. Seguendo le sorti di “legalità” e “sicurezza”, oltre che la parabola del “buonismo”. Nel caso di Salvini e dei leghisti è inevitabile il riferimento alla Neolingua di George Orwell:

« Ogni parola già contiene in se stessa il suo opposto. Prendiamo “buono”, per esempio. Se hai a disposizione una parola come “buono”, che bisogno c’è di avere anche “cattivo”? “Sbuono” andrà altrettanto bene, anzi meglio, perché a differenza dell’altra, costituisce l’opposto esatto di “buono”. Ancora, se desideri un’accezione più forte di “buono”, che senso hanno tutte quelle varianti vaghe e inutili: “eccellente”, “splendido”, e via dicendo? “Plusbuono” rende perfettamente il senso, e così “arciplusbuono”, se ti serve qualcosa di più intenso. Alla fine del processo tutti i significati connessi a parole come bontà e cattiveria saranno coperti da appena sei parole o, se ci pensi bene, da una parola sola. Non è una cosa meravigliosa? »

Senza alcuna creatività, come scriveva Pasternak, “come in un'eresia, | in un'incredibile semplicità”, ecco il luogo della mestizia, dell’understatement, riformista, progressista, socialista, comunista, terzomondista, ambientalista, animalista, etc. (insomma, l’ista che vi pare). Un vestito largo e senza pinces, di buona fattura, facile da indossare, vestibile, calzabile da tutti. Né cittadini, né giacobini, prêt-à-porter senza giubbotti, casacche e divise.

Apprendiamo con piacere che “Carlo Calenda sta lavorando da settimane alla sua lista Siamo Europei. Ma non è sufficiente. Per raggiungere il fantomatico 30 per cento e proporsi come concreta alternativa al fronte sovranista, serve trovare qualcuno con cui apparentarsi. Zingaretti sta lavorando sottotraccia a un'alleanza con +Europa di Emma Bonino e Benedetto Della Vedova. E c'è anche la lista Verdi-Italia in Comune  guidata da Angelo Bonelli e Federico Pizzarotti”[25]
Infatti, sembra un po’ pochino, una gran cacofonia (spiace per Pizzarotti), non certo un colpo segreto di kung-fu. 
Sul punto converge anche il giacobino David Broder: “Ma può darsi che la parola d’ordine “più Europa” non sia la soluzione di ogni male”.[26]

Negli anni ’30 il grandissimo giornalista e filosofo Alain usava osservare che “quando sento qualcuno che dice io non sono né di destra né di sinistra, capisco subito che è uno di destra”.[27]
La sinistra-sinistra in fondo – sempre per motivi diaforici (“il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce” (B. Pascal) – è come la morale secondo Emile Durkheim, «tutto ciò che è fonte di solidarietà, tutto ciò che costringe l’uomo a tenere conto dell’altro, a regolare i propri movimenti su qualcosa di diverso dagli impulsi del proprio egoismo». [28]
E siamo ancora all’inizio. Ruspe, sgomberi, persone lasciate in mezzo la via senza preavviso, difesa sempre più illegittima, clerico-fascismo (da quanto tempo non sentivo questa espressione oggi attualissima), fine vita, interruzioni di gravidanze, mammane, separazioni, divorzi e affidi, case chiuse e riaperture dei manicomi, in due parole: medio-evo medio-evo, oscurantismo – oscurantismo. Dalle mie parti, in Calabria, è perentorio, almeno questa volta, l’invito a votare bellu-bellu. Qualcuno dovrebbe ricordare a DiMaio, e forse pure a Zingaretti, il precetto “ne bis in idem”: ‘unni ci fricano cchiu.




[1] Jacques Lacan, «Nomina non sunt consequentia rerum», in Ornicar? Revue du Champ freudien, n.16, 1978
[2]  Barbara Cassin, L'effetto sofistico. Per un'altra storia della filosofia, Jaca Book, Milano, 2002
[3]  Ettore Perrella, Il tempo etico (o la ragione freudiana), Biblioteca dell’Immagine, Pordenone, 1986, (p. 220).
[4]   Il verbo chiamare risulta ambiguo. Significa sia rivolgersi ad un soggetto, nella dimensione dell’evocazione e dell’appello, sia dare un nome. Queste due determinazioni finiscono col coincidere. Almeno nel senso che dare un nome a qualcosa significa evocarla. Il tempo etico, op.cit.

[5]   Il simbolico, secondo Jacques Lacan (e Perrella si situa nella sua scia) corrisponde al linguaggio
    (cfr. l’articolazione lacaniana dei tre registri: reale, immaginario, simbolico).

[6]  Roman Jakobson, Saggi di linguistica generale, Feltrinelli, 2002 (1966)
[7]  Giovanni Giudici, La dama non cercata, Mondadori, 1985.
[8]  Questo titolo è un’arguzia di Vincenzo Glenn Rovella che si riferisce al seminario di Jacques Lacan, “Nomina non sunt consequentia rerum”, in Ornicar, n.16, 1978
[9]  Jacques Lacan, De locutionis significatione, in Il seminario, Libro I, Gli scritti tecnici di Freud (1953-1954), Einaudi, 1978 (p.315).
[10]  In francone (il dialetto tedesco parlato dai Franchi, nell'alto medioevo) il verbo brennan sta per 'ardere', 'bruciare'. Brand sta per 'cosa che brucia', 'tizzone'. Si registra evidentemente un processo di metatesi: brun-, burn-. Il concetto è lo stesso di marchiare a fuoco i criminali, il bestiame, gli schiavi.



[11] La reduplicazione svolge una funzione semantica quando il secondo elemento ha la funzione aggettivale di limitare e precisare il valore del primo (per es., caffè caffè, cioè fatto con vero caffè e non con surrogati, ovvero caffè molto buono);
[12]  “Diafora”: figura retorica, detta dai latini distinctio, che consiste nel ripetere una stessa espressione attribuendole però un significato diverso: positivo, quando il significato viene rinforzato in direzione di una maggiore pregnanza (“anche se quell’uomo è un nemico, resta sempre un uomo”); negativo, quando viene revocato uno dei significati dati con effetti di ironia o di amplificazione (“La mattina seguente Don Rodrigo si svegliò Don Rodrigo”).
[13] Ancora una volta una “reduplicazione” ma questa volta in senso biologico, copia di replicazione di una specialità medicinale registrata, fondata sulla bioequivalenza.
[14] “Rotture e scissioni, i mille coriandoli a sinistra del Pd”, in il Fatto Quotidiano, 21 Novembre 2018.
[15]  Per “Potere al Popolo”, “Liberi e Uguali” e i marchi storici della tradizione comunista credo non sia esagerato evocare l’idea blanchottiana d’insolenza: “l’insolenza è una maniera di respingere il mondo che si disprezza, di affermare un’aristocrazia, di riferirsi a regole più o meno segrete – maneggiamento pronto delle parole, disinvoltura (…)”. Maurice Blanchot, “Dell’insolenza considerata come una delle Belle arti”, in Passi falsi, Garzanti, 1976 (Gallimard, 1943). (p.330)
[16] Ricordo che non è in gioco l’adesione a una di queste formazioni e che si tratta di un semplice ragionamento sulle denominazioni (NdA)
[17] Ogilvy on Advertising. New York, Crown Publishers Inc., 1983 (Trad. It. La pubblicità. Milano, Mondadori, 1990)
[18] Jacques Derrida, Il segreto del nome, a cura di Gianfranco Dalmasso  e Francesco Garritano, Jaca Book, 1997 (Galilée, 1993).
[19] Il segreto del nome, op.cit. p.45
[20] Alessandro Cappabianca, Distruggere l’architettura , Serra e Riva, Milano, 1979, p.9

[21] Jean-Toussaint Desanti, Le trappole della credenza, Spirali, 1988: [21] (Grasset, 1982). E poiché “non esistono stati di credenza più di quanti non siano gli stati di parola”, s’intende quanto poco di maniera sia una riflessione di tal genere. Non è una questione, generica, di linguaggio ma una, più precisa, di parole.
[22] “Io non appartengo alla sinistra ingenua”, Federico Rampini a colloquio con Slavoj Žižek, il Venerdì di Repubblica, 12 novembre 2011
[23]  ibidem
[24] Si usano distinguere vari tipi di nomi, aventi implicazioni semantiche diverse:
nomi propri (dal nome della marca al nome del proprietario, al nome del destinatario ideale);
nomi denotativi (che evocano, per esempio, il nome dell’ingrediente principale e del gruppo di destinatari: orzobimbo); nomi connotativi (che associano degli universi semantici altri rispetto alla marca). G. Ceriani, Marketing moving. L’approccio semiotico, p. 31

[25] Roberto Bordi, in ilgiornale.it 08/03/2019, http://www.ilgiornale.it/news/politica/ora-macron-divide-pd-schermaglie-renzi-e-zingaretti-1658794.html
[26] David Broder, “Un esempio da non imitare”, in Jacobin Italia, n. 1, inverno 2018-2019
[27] Citato da Donald Sassoon, ospite di 8e30, https://www.youtube.com/watch?v=L6FXPeEJ8rM . E’ questo l’assunto di base del posizionamento orgogliosamente definito post- ideologico del Movimento 5 Stelle, forse in origine non lo erano ma di destra lo sono diventati. Émile-Auguste Chartier, detto Alain, pensatore poco conosciuto in Italia

[28] Per una ricognizione sui «valori» della sinistra, non più valori tradizionalmente socialisti, ma valori «progressisti»: quali immigrazionismo, apertura o soppressione delle frontiere, difesa del matrimonio omosessuale, depenalizzazione di alcune droghe; di una sinistra «moderna», pure correndo il rischio del radical chic, nell’idiosincratico rifiuto “dell’oscura eredità del passato”; nel combattere i sintomi della febbre identitaria e il risorgere di una mentalità reazionaria e arretrata, anche qualora « il “migrante” sia progressivamente divenuto la figura redentrice centrale di tutte le costruzioni ideologiche della nuova sinistra liberale, sostituendo l’arcaico proletario». Insomma, una sinistra-sinistra vola basso e si limita a lottare per “una società decente” (che - secondo Orwell, era comunque un progetto socialista). Aggettivo mesto per evocare umanità e solidarietà. Un minimo di decenza, appare proprio come una continuazione dell’etica con altri mezzi. Qualcosa di molto lontano e di opposto ai gilets jaunes. Una proposta minimalista sulla quale dovrebbe esser possibile far confluire tutta la perversa e polimorfa cazzìmma di Bersani, Grasso, De Magistris, Montanari, Fassina, Rizzo, Ferrando, Carofalo, Cremaschi e altri 3000 leader che ora mi sfuggono. Parafrasando Robecchi, “senza sinistra-sinistra non se ne esce”.
Cfr. A proposito di “Le complexe d’Orphée”, di Jean-Claude Michéa, in De Benoist su Michèa: Socialismo né destra né sinistra 


lo so, è molto lungo. 
Ai più masochisti segnalo pure scalabili feat. Luigi Rovella
Lombroso dal coiffeur feat. Carlo Emilio Gadda

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