Un murales spunta tra le macerie del paese fantasma dopo la frana del 2005
propongo un cartello di studi
a partire da
Georg Simmel, sulle Rovine
(…) Che ogni dimensione dell'umano "abbia la sua origine dalla terra ed alla terra debba tornare" è una constatazione che va qui al di là del suo triste nichilismo. Fra il non ancora ed il non più si situa un momento positivo dello spirito la cui strada ora certo non indica più la sua vetta ma, sazia della ricchezza di questo culmine, scende giù alla sua patria, facendo in certo modo da pendant al "momento fertile" rispetto al quale quella ricchezza è uno sguardo anticipante che la rovina guarda alle sue spalle. Che la violenza realizzata dalla forza della natura su di un'opera dell'arbitrio umano possa sortire però un effetto estetico presuppone che in quest'opera, per quanto essa sia stata formata dallo spirito, non sia mai svanita del tutto una pretesa giuridica della mera natura. In base alla sua materia, al suo carattere fattuale, l'opera è sempre rimasta natura ed allorché quest'ultima ora se ne riappropria non fa che realizzare in tal modo un diritto, fino ad allora sospeso, al quale essa però per così dire non rinuncia mai. Perciò la rovina sortisce così spesso un effetto tragico – sebbene non triste –, poiché la distruzione qui non è alcunché che provenga assurdamente dall'esterno, bensì è la realizzazione di un indirizzo collocato nello strato d'esistenza più profondo di ciò che è distrutto. Perciò, allorché definiamo "rovina" un essere umano, manca così spesso l'impressione esteticamente soddisfacente connessa alla tragicità ovvero alla segreta giustizia della distruzione. In questo caso, infatti, se anche s'intende che quelle dimensioni psichiche che si designano in senso stretto come naturali, le pulsioni o le inibizioni legate al corpo, le inazioni, gli accidenti, quanto rinvia alla morte, s'impadroniscono degli strati specificatamente umani, validi dal punto di vista della ragione, non per questo si verifica per il nostro sentimento un diritto latente di quelle inclinazioni. Anzi, un diritto di questo genere non esiste neppure. Noi riteniamo – non importa se a ragione o a torto – che simili svilimenti di natura contraria allo spirito non ineriscano alla natura umana, proprio in base al suo senso più profondo; su ogni esteriorità essi posseggono un diritto che è nato con essa, ma sull'uomo no. Perciò, anche a prescindere da considerazioni che stanno sotto altri aspetti, come rovina l'uomo è così spesso triste più che tragico e privo di quella compostezza metafisica che deriva alla decadenza dell'opera materiale da un suo profondo Apriori. Quel carattere di ritorno alla patria non è che un'esplicitazione dell'atmosfera di pace che circonda la rovina. Essa accompagna l'altra sensazione secondo cui quelle due potenze mondane, l'aspirazione verso l'alto e lo sprofondare verso il basso, cooperano nella rovina a formare l'immagine tranquillizzante di un'esistenza puramente naturale. Esprimendo questa pace, la rovina s'inserisce in maniera unitaria nel paesaggio circostante, aderendovi come l'albero e il sasso, mentre il palazzo, la villa e financo la casa colonica, anche dove meglio si adeguino all'atmosfera del loro paesaggio, discendono sempre da un altro ordine di cose e si accordano con quello della natura soltanto come a posteriori. In una costruzione molto antica in aperta campagna, ma soprattutto e in primo luogo in una rovina, si nota spesso una vera e propria uguaglianza di colore con le tonalità del terreno circostante.
La causa deve essere in qualche modo analoga a quella che determina anche il
fascino degli antichi tessuti, per quanto eterogenei fossero i loro colori allo
stato fresco. Le lunghe vicende comuni, secchezza e umidità, caldo e freddo,
sfregamento esterno e consunzione interna, colpendo tutti nel corso dei secoli,
hanno generato una unitarietà dell'intonazione coloristica, una riduzione allo
stesso denominatore comune cromatico che nessun nuovo tessuto è in grado di
imitare. All'incirca nello stesso modo gli influssi della pioggia e dei raggi
del sole, della vegetazione, del caldo e del freddo devono aver assimilato la
costruzione in loro balia al colore della campagna abbando- nata ai medesimi
destini. Questi influssi hanno ricondotto il primitivo antitetico risalto
dell'edificio alla pacifica unità di una coappartenenza. Ma ancora sotto un
altro aspetto la rovina reca l'impronta della pace. Da un lato di quel
conflitto tipico si situava la sua forma puramente esteriore ovvero la sua
simbolica: i contorni dettati da sollevamenti e frane della montagna. All'altro
polo dell'esistenza, però, tale conflitto vive completamente all'interno
dell'anima umana, questo campo di battaglia fra la natura che essa stessa è e
lo spirito che pure essa stessa è. Nella nostra anima sono di continuo
all'opera quelle forze che si possono designare solo con la metafora spaziale
dell'aspirazione verso l'alto, forze di continuo attraversate, deviate,
rovesciate da quelle altre che operano in noi come il nostro elemento cupo e
basso, "soltanto naturale" nel senso deteriore del termine. La forma
della nostra anima è determinata ad ogni istante dalla misura e dal modo della
vicendevole mescolanza di questi due tipi di forze. Tale forma non perviene
però mai ad una condizione definitiva, né con la vittoria decisiva di una delle
parti né con un compromesso fra di esse. Infatti, non soltanto la ritmicità
inquieta dell'anima non tollera una tale condizione, ma soprattutto dietro ogni
singolo evento, dietro ogni singolo impulso dell'una o dell'altra direzione c'è
qualcosa che continua a vivere, ci sono esigenze che non sono risolte dalla
decisione attuale. In questo modo l'antagonismo dei due principi assume un
aspetto d'inconclusività, un aspetto informe che fuoriesce da qualunque ambito.
In questa interminabilità del processo etico, in questa profonda mancanza di
una configurazione armoniosa, pervenuta alla quiete plastica, imposta all'anima
dalle pretese infinite delle due parti, risiede forse l'ultima ragione formale
dell'ostilità che oppone le nature estetiche a quelle etiche. Dove intuiamo
esteticamente, noi esigiamo che le forze antitetiche dell'esistenza siano
giunte ad un qualche equilibrio, che la lotta fra l'alto e il basso si sia
arrestata. A questa forma che concede solo un'intuizione si oppone però il
processo spirituale etico con il suo incessante su e giù, coi suoi continui
spostamenti di confine, con l'inesauribilità delle forze che in esso si fronteggiano.
La pace profonda, però, che come un sacro incanto circonda la rovina, è
sostenuta dalla seguente costellazione: l'oscuro antagonismo che condiziona la
forma di ogni esistenza – una volta agendo nell'ambito delle mere forze
naturali, un'altra nell'ambito della vita dell'anima per sé sola, una terza
volta, come nel nostro oggetto, svolgendosi fra la natura e la materia –, un
tale antagonismo qui parimenti non è conciliato in un equilibrio, bensì esso
lascia prevalere l'una parte ed annientare l'altra, offrendo tuttavia in
quest'azione un'immagine sicura nella forma, capace di persistere in quiete. Il
valore estetico della rovina congiunge lo squilibrio, l'eterno divenire
dell'anima in lotta con sé stessa con l'appagamento formale, il saldo contorno
dell'opera d'arte. Perciò dove della rovina non rimanga abbastanza da rendere
percepibile la tendenza che conduce verso l'alto, viene a cadere la sua
attrattiva metafisico–estetica. I tronchi di colonna del Forum Romanum sono
semplicemente brutti, mentre una colonna sgretolata fino a metà può sviluppare
un massimo di fascino. Certo si potrà attribuire quella pacificità ad un altro
motivo: al carattere di passato della rovina. Essa è la sede della vita dalla
quale la vita ha preso congedo – ma ciò non è nulla di semplicemente negativo o
di pensato all'occorrenza, come nelle innumerevoli cose che nuotano nel fiume
della vita è che vengono gettate per caso sulla sua riva, ma che in base alla
loro natura possono parimenti venire riafferrate dalla sua corrente. Piuttosto,
il fatto che la vita con la sua ricchezza e le sue vicende abbia un tempo
abitato qui, questa è una presenza immediatamente intuibile. La rovina crea la
forma presente di una vita passata, non in base ai suoi contenuti o ai suoi
resti, bensì in base al suo passato in quanto tale. Questo è anche il fascino
delle antichità, circa le quali solo una logica ottusa può affermare che una
imitazione assolutamente precisa giungerebbe ad eguagliarle nel valore
estetico. Non importa se ci s'inganni nel caso specifico – col pezzo che
reggiamo in mano noi dominiamo spiritualmente l'intero arco temporale a partire
dalla sua creazione, il passato con i suoi destini e le sue vicissitudini è
raccolto nel punto d'una presenza intuibile esteticamente. Qui come al cospetto
della rovina, punta estrema e luogo di adempimento della forma di presenza del
passato, entrano in gioco energie della nostra anima così profonde e globali
che diviene completamente insufficiente la rigida separazione fra intuizione e
pensiero. Qui è all'opera una totalità dell'anima e, come il suo oggetto fonde
insieme in una forma unificata le antitesi di presente e passato, essa
comprende tutto lo spettro d'azione della visione corporea e di quella
spirituale nell'unità del godimento estetico, godimento le cui radici si
radicano per altro sempre in un'unità più profonda di quella estetica. (…)
1 [Titolo originale: «Die Ruine», in Philosophische Kultur. Gesammelte Essays, Klinkhardt, Leipzig 1911
(1919 II, pp. 125–133), ripubbl. presso K. Wagenbach, 1983. La traduzione qui
riportata è quella, discutibile, di Gianni Carchia in Rivista di Estetica, 8, 1981, pp. 121–127. Altrettanto
insoddisfacente, fin dal titolo plurale riduttivo «Le rovine», la traduzione di
Marcello Monaldi in G. Simmel, Saggi di
cultura filosofica, Longanesi, Milano 1985, ripubbl. da Guanda, Parma 1993,
pp. 108–114].
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