di Alfredo Pirri
scrivo questa memoria in conseguenza all’uscita di alcuni articoli attinenti alla rimozione della mia opera “Passi” del 2011 dal salone d’accesso della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e alle tante richieste d’informazioni o di prese di posizione sia precedenti sia successive allo smontaggio dell’opera. Il fine di questo comunicato è quello di chiarire la mia posizione al riguardo.
I fatti passati
Dopo una mia richiesta di appuntamento del Novembre 2015 ho incontrato la nuova direttrice del Museo, Cristiana Collu, a fine Gennaio 2016. In quell’occasione mi è stata comunicata l’intenzione di rimuovere la mia opera Passi, per fare posto a una struttura che avrebbe ospitato un’iniziativa commerciale legata alle attività del museo.
Tempo dopo, a ridosso dello smontaggio dell’opera, ho ricevuto una richiesta telefonica dagli uffici della GNAM, per ricevere istruzioni scritte utili allo smontaggio dell’opera, ho risposto che l’avrei fatto se mi fosse stato richiesto ufficialmente. Nessuna richiesta mi è stata recapitata, ma ho preparato ugualmente, per cortesia istituzionale, il piano di smontaggio con le istruzioni e le ho fatte pervenire alla Direttrice.
I comportamenti
Da allora sono passati circa due mesi. Durante questo tempo non ho diffuso alcuna notizia inerente questa decisione, né l’ho mai commentata negativamente in pubblico. Ho anche impedito che si promuovessero iniziative spontanee per avviare un movimento d’opinione che, tramite appelli finalizzati alla richiesta di permanenza dell’opera, erano pronti a diffondersi sui social media. Così facendo, ho sperato si avviasse, al posto di una polemica incentrata solo sul mio lavoro, un dibattito politico-culturale più ampio, su quello che da lì a poco avrebbe forse modificato radicalmente lo spazio e lo spirito della Galleria Nazionale d’arte Moderna.
Non ho preso alcuna posizione pubblica fino ad ora soprattutto perché, nulla si sa di quanto è già in corso di realizzazione presso il museo forse più amato in Italia. Anche i giornalisti che hanno provato ad avere notizie in merito testimoniano dell’impossibilità di avere informazioni sul progetto ormai in corso di realizzazione.
I fatti presenti
Ora, dopo avere favorito, col silenzio e con la scrittura di un manuale, lo smantellamento (e il sacrificio) della mia opera, mi sento pienamente autorizzato a chiedere cosa succederà in quel museo. Come cittadino, sono in pieno diritto (e forse dovere) di chiedere, anche a nome collettivo, di poter giudicare un progetto, sia architettonico sia culturale, finalizzato a ridisegnare il futuro del museo, perché dovrebbe essere prassi soppesare e discutere ogni opera di rilievo pubblico prima di passare alla sua realizzazione. Soprattutto se, come parrebbe in questo caso, l’intervento che si profila non è finalizzato solo a riorganizzare la collezione ma andrebbe a mutare significativamente lo spazio e l’assetto del museo, costruendo infrastrutture che andrebbero a mutare, magari anche solo parzialmente, lo spazio del museo e con esso le sue finalità istituzionali ed espositive. All’osservazione che bisogna aspettare la realizzazione del nuovo programma per giudicarlo, rispondo che sarebbe stato un bene, al contrario, che le idee progettuali fossero state rese pubbliche in anticipo per essere conosciute e magari dibattute piuttosto che solo subite a cose fatte. Solo così, anche attraverso le critiche e il confronto, questi programmi potrebbero diventare eventualmente convincenti. La nuova Direzione della GNAM, al contrario, parrebbe avere deciso per il mantenimento del segreto su ogni aspetto del progetto e di conseguenza di privatizzare ogni elemento utile al dibattito e alla condivisione delle idee e dei valori che il progetto esprimerebbe. All’altra osservazione, che insiste sulla liberta di “fare quello che si vuole” da parte di chi intraprende una nuova direzione pubblica, rispondo che non è questo il modo migliore di usare il potere che ci si trova (momentaneamente) a esercitare e, che, quest’atteggiamento caratterizza da sempre l’esercizio di un potere che non si confronta, in sintesi, di un regime in cui tutte le regole di convivenza o addirittura le leggi sono abolite a favore di un atto individuale.
Purtroppo, questo comportamento, conferma la tendenza alla consunzione della democrazia che sta diventando, da più di vent’anni, caratteristica del nostro paese e che andrebbe interrotto da un differente modo di concepire l’ideare pubblico.
A conclusione, come altro elemento di riflessione e giudizio su questa vicenda e per chiarire ancora meglio il mio pensiero rendo nota la mia lettera alla Dottoressa Collu dell’1 febbraio 2016, subito dopo il nostro incontro.
La lettera
Cara Cristiana
Scusami se ti prendo ancora del tempo per continuare a riflettere sullo stesso argomento di cui abbiamo parlato: la rimozione della mia opera (mi pare d’aver capito certa), o in alternativa la sua ricollocazione in altra sala.
Prima di tutto vorrei dirti di quanto mi sia sentito onorato di aver concepito un’opera di quella portata (istituzionale e politica oltre che artistica) nel museo che ritengo ancora il più bello che possiamo vantare di avere e il maggiormente radicato nell’immaginario di ogni artista italiano, anziano o giovane che sia, e tuttora luogo di studio e formazione dell’immaginario per migliaia di studenti etc.
Sono orgoglioso non solo di aver realizzato quest’opera, ma anche di avere contribuito, attraverso di essa, a restituire purezza visiva e nuovo valore a uno spazio concepito già dal progettista come dimensione aperta, luogo dell’allargamento dello sguardo e della predisposizione alla visita intesa come cerimonia laica, sensibile e conoscitiva allo stesso tempo. Questa purezza è stata inoltre resa problematica predisponendo lo spettatore a una visita maggiormente attiva rispetto a quanto normalmente accade nei musei. La riuscita di quest’operazione (oltre che opera) è evidenziata (come certamente saprai molto meglio di me che l’ho scoperto solo di recente) dalla ricerca approfondita svolta dall’osservatorio sui comportamenti dei visitatori istituito dal museo stesso, che segnala a pag. 108 del documento finale elaborato dal gruppo di ricercatori titolato Belle Arti 131 e pubblicato sul sito stesso del museo, che: “… sono risultati punti di forza … l’entrata spettacolare al Museo con Passi. Il pavimento a specchio creato da Alfredo Pirri …”. A quest’osservazione, aggiungerei che ancora di più si sarebbe potuto fare (e si potrebbe ancora) rispettando lo spirito originario dell’opera concepita non solo come cosa a sé stante ma laboratorio attivo da svolgersi nel tempo, sia attraverso l’eventuale sovrapposizione di nuove opere tridimensionali appartenenti alle collezioni del museo lavorando a vere e proprie “narrazioni” (quelle attualmente in mostra sono dedicate all’Ottocento Italiano), sia attraverso forme e modi da studiare in accordo con gli organismi dirigenti del Museo stesso.
Non insisto però sulla pertinenza dell’opera (e dell’operazione) perché non mi pare che questo dato fosse messo in dubbio nelle tue riflessioni, quanto porre l’accento sul fatto che eliminarla in via definitiva mi parrebbe un gesto, se posso permettermi il giudizio, poco comprensibile per un pubblico che continua ad amarla in maniera speciale seguitando a rinnovare il consenso nei suoi confronti. Questo si ricava facilmente analizzando tutti gli strumenti di divulgazione e informazione digitali che compongono la rete, dove circola una grande massa d’immagini e idee che si sono sviluppate (e continuano a muoversi) intorno a quest’opera e raccogliere, analizzare e riflettere su questi dati sarebbe anche molto interessante.
Certo ci sarebbero questioni tecniche da affrontare (sia inerenti all’opera, sia allo spazio in generale), questioni peraltro di cui ho piena conoscenza e consapevolezza fin dall’inizio. Comunque, con ogni probabilità, qualsiasi cosa si andasse a fare in quello spazio si creerebbero delle problematiche nuove, specie laddove si decida di realizzare un pavimento in sostituzione del lavoro o addirittura mettere in luce l’esistente.
So bene che questi problemi non sono di mia competenza e non dovrei neanche citarli. Se mi permetto di farlo è solo perché li ho già incontrati allora, e poi perché sono stati problemi sollevati durante il nostro incontro e per dire, ora, a mente fredda, che mi sembrerebbero questioni risolvibili se si decidesse di affrontarli con spirito comune e di compenetrazione.
Se, diversamente (e ovviamente in pieno rispetto delle decisioni che prenderai nell’autonomia che ti compete) non ci sarà nessun futuro per PASSI che, torno a dire, segna ancora in maniera positiva e possente il carattere del museo, dovrò prenderne atto sapendo però che le motivazioni non sono di natura “tecnica” bensì culturale, e mi dispiace pensare che dentro questi motivi non ci sarà spazio per un’opera tanto visionaria.
Un caro saluto
Alfredo
Cristiana Collu: why, pourquoi, pecché, a itte?
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Post scriptum
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Passi falsi
Chōra, dal Timeo platonico a Derrida, è parola di difficile
traduzione oltre che di un’aspra concettualizzazione. Chōra: luogo, posto,
ricettacolo e nello stesso tempo non luogo. Più che “è” sta per “può”, “può
essere”? Traduzione possibile “che non esaurisce la questione. Infatti: che
cosa ha possibilità? Chi può?” – si chiede Peppe Barresi in un recente libro
collectaneo dedicato appunto a Jacques Derrida e ai Luoghi dell’indecidibile. In altri passi ci s’imbatte nell’incoraggiamento, affettuoso e problematico,
indirizzatogli da Jean Hyppolite “non vedo dove lei vada”. Ricorda Derrida “di
avergli pressappoco risposto così: se io vedessi chiaramente, e in anticipo,
dove vado, credo di sicuro che non farei mai un passo in più per recarmici. (…)
A che pro andare dove si sa che si va e dove si sa destinati ad arrivare”. Più
avanti, nello stesso libro – edito da Rubbettino - si ritrova ampiamente citato
un testo di Jacques Bouveresse (mi limiterò per esigenze di spazio a rimarcarne
il solo titolo): “L’oscurità del tempo presente”. Lì si discuteva del
Wittgenstein politico, della sua ritrosia, del suo “sarà rivoluzionario colui
che potrà rivoluzionare se stesso”. Ancora una volta un “potrà”, un ottativo, una
possibilità espressa al futuro. Peccato inciampare sulla soglia e scivolare
sugli specchi: Pirri non è Demnig e quelle non sono Stolpersteine. Perché non
prendere in considerazione una via d’uscita, collocando la misteriosa iniziativa
commerciale alla fine, verso l’excipit? Questione di percorsi e di direzione di
marcia, non di sopra e di sotto, di sottosopra. L’ultimo come primo, hysteron
proteron, partire dall’uscita, verificare l’uscita di sicurezza, dotarsi di un’exit-strategy,
quello sì sarebbe stato un buon inizio.
Allora, Direttore Collu, “non vedo dove lei vada”, dove mai
possa andare con quel Non/Passo* “per fare posto a una struttura che avrebbe
ospitato un’iniziativa commerciale legata alle attività del museo”. Si vede
chiaramente e in anticipo dove si dirige a passo spedito. E per buona creanza
non nominerò quel luogo ipercodificato e molto volgarmente appellato. Luogo
pure dove immancabilmente si finisce quando si scalpita** al fine di lasciare un
segno. Tacendolo non potrà appellarsi alla preterintenzionalità, prevalendo un dolo
che s’interseca con la responsabilità oggettiva se non con la colpa. Oppure davvero non lo sa e vuole recarcisi lo
stesso?
Ascoltali / congiungersi
/ le parole alle parole / senza una parola / i passi ai passi / uno a / uno
(Filastroccando,
in Samuel Beckett, Poesie, a cura di
Gabriele Frasca, Einaudi, 1999)
Alfredo è da troppo tempo sulla soglia, operatore dell’incipit,
si prende cura degli ingressi. Vigila discreto, senza far la sentinella, sul
futuro anteriore. Così quando Cristiana avrà finito di smantellare Passi (e Renzi di trivellare - dice lui - salvando
13.000 posti di lavoro), i bambini saranno già andati a dormire. Vale a dire che
il futuro anteriore è impiegato, oltre che con valore futurale, in funzione
epistemica e con valore retrospettivo. “Cristiana alle otto avrà finito di
cucinare e potrà uscire”. “Se la cura non avrà dato esito positivo se ne potrà
parlare”, Il tutto mentre Alfredo sarà stato lì, in piazza, al Museo
archeologico di Reggio Calabria a sorvegliare silenzioso, mimetizzandosi tra le
pareti. Da bravo monaco alla Certosa di
Padula, avrà frequentato le vie d’ombra nel boschetto di bambù di Villa Medici
a Roma, a Palazzo Te a Mantova, a Villa Guastavillani a Bologna, testimone
degli ultimi passi nel foro di Cesare e pure di qualche risveglio nel reparto
di rianimazione dell’ospedale Santo Spirito in Sassia.
*Per Pas abbiamo
adottato la traduzione Non/Passo
perché il termine traduce, in lingua francese, sia il sostantivo passo (invariato anche nella forma
plurale) sia l’avverbio di negazione non
(…). L’uso di pas nelle proposizioni
negative, unitamente all’insistente indecidibilità stabilita da Derrida tra avverbio
e nome, non ha sempre permesso che venissero mantenute, nella traduzione
italiana, le oscillazioni e i travasi semantici tra i due termini (a titolo di
esempio: ”Le pas n’est donc pas même un pas, pas même”, che abbiamo tradotto: “Il
passo dunque non è nemmeno un passo”).
Silvano Facioni, nota del traduttore, in Jacques Derrida, Paraggi. Studi su Maurice Blanchot,
Jaca Book, 2000 (Galilée, 1986)
**
Piétiner, verbo
che deriva da piéter (marciare,
attestato nel 1621), indica un’azione singolare: può infatti significare
l’agitarsi, il battere con insistenza i piedi sul terreno in una situazione di
impazienza: il fremere. L’impazienza è quanto segna l’azione in relazione al
fine, da approssimare, da trarre a sé. (…) Se volessimo ricorrere ad
un’immagine icastica dell’impazienza, potremmo convocare quella degli
ippodromi, allorché i cavalli, disposti nella griglia di partenza, battono gli
zoccoli sul manto erboso in attesa che le gabbie vengano aperte per lanciarsi
verso il traguardo: l’animale sente lo spazio, la distanza frapposta tra il
luogo in cui staziona e la linea del traguardo, così come avverte la presenza
degli altri cavalli. La situazione in cui domina l’impazienza, sottoposta all’attesa
propria del protocollo (il giudice di partenza deve verificare che tutto sia in
ordine, che ogni cavallo sia all’interno della propria gabbia, prima di dare il
segnale di partenza), fornisce un esempio del piétiner, azione in cui si consuma la stasi, ossia una condizione
che si intende abbandonare per il movimento. Ciò dà origine ad una sorta di
anticipazione, quella propria di uno scatto nel luogo o sul luogo, in una
stazione marcata da una limitazione della mobilità. Lo scalpitare, il vibrare
segnano l’appartenenza alla posizione e la tensione propria a volerla
abbandonare. Nel piétiner osserviamo
questa particolare articolazione, nella quale il luogo è occupato e, parimenti,
vuoto, nel senso che il movimento nello spazio, nel medesimo spazio, è indice
dell’attraversamento, del procedere al di là. Troviamo nel luogo, in un luogo
dato, l’indiscutibile primato del qui, messo in discussione da un là, dalla
destinazione dello spostamento. (…) piétiner
propone una situazione aporetica nella quale la possibilità del movimento è
segnata dall’impossibilità, situazione che è anche una condizione di indecidibilità:
c’è spostamento sur place, ovvero il
movimento ha luogo, ma non si consuma nell’attraversamento, nell’avvicinamento
della meta. (pp.7-8)
Il dimorare della dimora è precisamente nominato: almeno
cinque volte (…). Parola di ceppo latino che attraverso il provenzale, lo
spagnolo (demorar) o l’italiano (demorari) riconduce al latino demorari, de e morari, che
significa attendere e tardare. C’è sempre un’idea di attesa,
di controtempo, di ritardo, di proroga o rinvio nella dimora come nella
moratoria. (p.90)
Francesco Garritano. “L’indecidibile e la sua legge”, in DIMORA. MAURICE BLANCHOT, Palomar, 2001.
“E più tardi, lo spero per lei e per i suoi alleati di
campagna, forse discernerà anche i pericoli della confusione. (…) Per uscire
dall’oscurantismo, bisogna al contrario, ripeto il mio consiglio, sempre,
sempre, avventurarsi al di là dell’inizio (« venture beyond the beginning »)”.
Jacques Derrida, DIMORA.
MAURICE BLANCHOT, a cura di Francesco Garritano, Palomar, 2001.
MC
MC
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