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domenica 17 aprile 2016

Turistiche o elettorali



Sempre e solo parole vuote
di Massimo Celani


 testata di letto capitonné

Ho iniziato a occuparmi (preoccupandomene) delle parole turistiche della nostra regione vent’anni or sono. Sfruculiai quel “mediterraneo da scoprire” perché era un enunciato vuoto e in più era una soluzione buona pure per Pantelleria, Cipro e la Sicilia. Feci le pulci a quello slogan su “Ora Locale”, il bel bimestrale diretto da Mario Alcaro.  Da lì in poi è andata sempre peggio e la nostra regione, pur spendendo molti quattrini, non si è finora distinta in un discorso pubblicitario sensato.
Salverei solo “chi ama la Calabria non paga il treno”, enunciato che è esso stesso un'azione, un dispositivo, un fare, insomma un incentivo intermodale (non una scemenza creativa), varato in tempi lontani da Michele Traversa.


Qualche breve scansione temporale: il 1997 è l'anno del "Mediterraneo da scoprire"; Antonella Freno nel 1999 vara "Terra da sognare" (banalità che è inutile commentare); a seguire c'è "Regione chiave"  committente SVI Calabria, ma più che turistica si trattava di un'azione comunicativa tesa ad attrarre investimenti (inutilmente: la chiave è rimasta nel campo del sogno)."Due volte mediterraneo", nel 2003 (epoca dell'Assessore Gentile), almeno – evocando la costa jonica e tirrenica - diceva una cosa concreta e verificabile; "Identità Calabria" (con l’immagine del “toro cozzante”) anno 2006, epoca di Beniamino Donnici, per antifrasi conferma in pieno il ragionamento espresso da Vito Teti su questo stesso giornale; a seguire "Identità Calabria ... da scoprire" (una fusione senza capo né coda di due diverse campagne). Nel 2007 arriva il Toscani predittivo con "Gli ultimi saranno i primi" (e come no!). Nel 2009 è la volta di “Noi ci mettiamo il cuore", con Gattuso testimonial. Nel 2011 s’imbastisce un poco convinto "Pensiero Mediterraneo", coi bronzi di Riace che giocano alla morra l’imbarazzo della scelta tra mare e monti. Si torna tristemente alla ribalta in questo 2016 a causa di “un altro paradiso”, grazie a una conduttrice radiofonica e blogger che ha segnalato la diffusione di una pagina pubblicitaria all’insegna della sciatteria: “un mesto Arial bianco che si vede malissimo e non è manco centrato”, con tanto di sistema aeroportualeR (sic), vale a dire una bella chiosa con refuso. Ma di quelle parole sapienti – dico – vogliamo parlarne? “Calabria … un altro paradiso”: giustamente Massimo Clausi, qualche giorno addietro, si chiedeva “altro” in che senso? che va ad aggiungersi a un immaginario ipercodificato o che è radicalmente diverso? Si possono ancora evocare battiti di cuore e paradisi inesistenti? Detto per inciso, a fine dicembre mi è capitato d’incontrare ai BoCs, le residenze artistiche volute dal sindaco di Cosenza, Francesco Cabras, fotografo, regista, artista a tutto tondo che tra l’altro è l’autore di “dammi tre parole: sole, cuore, amore”. Un genio assoluto al quale, essendo grato per la bella esperienza cosentina, avremmo potuto chiedere di donarci un contributo di analoga potenza espressiva. Certo le paroline pubblicitarie non sono solo canzonette (e tanto meno il grado zero di quelle), ma vogliamo mettere la linearità di un sermo manifestus, di un discorso piano e esplicito, con le contorsioni e gli arzigogoli iperbolici di paradisi che – oltretutto – non sono location visitabili (ce ne ha informato il sindaco di San Nicola Arcella che ha il problema di mettere in sicurezza la zona dell’Arco Magno). “Calabria: sole, cuore, amore”, un tripode perfetto. Perché non chiediamo a Cabras e a Valeria Rossi di prestarcele per una stagione? E no, perché di “altri paradisi” ne abbiamo a bizzeffe e – salvo volerci posizionare nel segmento del turismo estremo – sono difficilmente visitabili. Questa volta, tra frane e amministrazioni sciolte per infiltrazioni mafiose, le transenne dovrebbe posizionarle Carlo Tansi e il ministero degli Interni. Forse che Platì non è un paradiso “altro”? Nell’italietta che preferisce “diversamente abile” a “persona con disabilità”, ovviamente fottendosene dei servizi a quelli dedicati, è un suggerimento di errata corrige per Marco Minniti. Non sono trascurabili le liste di prenotazione per viaggi sulla luna, per una visita a Chernobyl anche con uno stalker improvvisato, mentre per i tanti luoghi di guerra si sgomita e c’è solo l’imbarazzo della scelta. Il turista estremo che flirta coi foreign fighters perché mai non dovrebbe venire in Calabria? Come non tener conto del Mark Twain di “il paradiso lo preferisco per il clima, l’inferno per la compagnia”.  Le parole pubblicitarie sono costose, anche perché non vengono stampate sui libri ma vengono incontro a noi e ai turisti attraverso i manifesti, i dépliant, la radio, la tv, il cinema, il web.  Quando sono ben fatte, quando sono indossabili, quando intrattengono un rapporto intelligente con lo stato delle cose o perlomeno con una certa idealità, possono sedurre, guidare, insegnare non pedagogicamente (cose che normalmente fanno la musica e l’arte), indirizzare le decisioni politiche e poi - fungendo da rappresentanti della rappresentazione - produrre immagine. 



Quali le parole presenti in noi? Quali le parole alla nostra portata che possiamo onestamente usare? Mi secca un po’ citare le stesse parole che scrivo dal 1998, che vado ripetendo da troppo tempo, certo per difetto di autorevolezza e senza il supporto del combinato disposto Di Consoli, Teti, Veltri. Ti prego prof. Veltri, non pensare a Munch e Faulkner, sintonìzzati sulle diffuse e soffocate esternazioni come questa. Concorderai sul fatto che le parole sono importanti, anche quelle elettorali e quelle turistiche. Freudianamente le diremmo correlate, forse il rovescio le une delle altre, le prime legate all’io ideale, le seconde all’ideale dell’io, ambedue all’amore di sé, vuoi come sublimazione vuoi come idealizzazione. Lo dico mestamente, alla Nanni Moretti, non con S. Agostino (il quale pure rilevava come il dicere fosse strutturalmente compromesso col docere).  Manca una scuola di amministrazione pubblica, ci si continua a improvvisare amministratori della cosa pubblica e PolitiCS voluta da Salvatore Magarò è troppo fresca per vederne gli effetti. Soprattutto manca un ancoramento, ciò che i tappezzieri, i materassai e Jacques Lacan, avrebbero chiamato punto di capitone, quel punto “mitico” dell’aggancio del discorso a qualche significazione, ciò che tiene insieme tutti gli elementi, che permette che tutti gli elementi abbiano un orientamento e sfocino in una significazione. Nel frattempo la Calabria affoga nelle parole vuote. Teti, Veltri, Di Consoli, non credete che siano questioni politiche e pure di una certa importanza? 

domenica 17 aprile 2016
Il Quotidiano del Sud

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... L’idea iniziale di Lacan è che il Simbolico abbia un fondamento, cioè abbia un significante che appartiene all’insieme dei significanti e che fa sì che questo insieme tenga, faccia un ordine. In una struttura questo elemento lo chiama “punto di capitone”: ciò che tiene insieme tutti gli elementi, permette che tutti gli elementi tengano insieme, cioè che abbiano un orientamento, sfocino su una significazione. È quello che chiama il Nome-del-Padre, che ha la stessa funzione che può avere un significante in una semplice frase: finché una certa parola non arriva in una frase non si sa bene cosa voglia dire, quindi ci vuole una parola decisiva che permetta di capire l’insieme della frase. Ad esempio se io dico: “Su quale piano metti la composizione”, si capisce il significato di ogni parola, ma non si capisce cosa sto dicendo. “Su quale piano metti la composizione che dobbiamo suonare?”, oppure: “Su quale piano metti la composizione di questo pittore?”. Non è lo stesso “piano”. Non è la stessa “composizione”. Ad un certo punto, c’è una parola che fa precipitare la significazione della frase. Il Nome-del-Padre è ciò che permette al linguaggio di precipitare una significazione, di sapere da che parte si va, di avere un orientamento. È il significante, come dice Lacan, che ferma lo slittamento della significazione. Questo significante permette ad un certo punto di dire: “è così”, “vuol dire ciò”, il linguaggio si dirige verso questo punto. Se non c’è questo decisivo significante la significazione scivola, fugge. (...)

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(...) Les limitations du nœud

Jacques-Alain Miller nous suggère de renoncer au point de capiton dans la clinique continuiste s’orientant du nœud borroméen, là où dominent le hors-sens et le réel sans loi5. L’armature du Nom-du-Père et la construction de la métaphore paternelle impliquent d’une façon plus ou moins affirmée l’existence d’un « dernier mot » pour dire le sens ultime et résorber toute la jouissance. Le constat que cette résorption n’est jamais sans reste nous oblige à réinterroger la clinique du point de capiton.(...)

prossimamente

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