che con diletto duettano su:
migrazione/meticciato
moderazione/integrazione
dialettica/intercultura
ovvero,
sono andato a sentire Carmine Abate
ovvero,
sono andato a sentire Carmine Abate
Giorgio "Waldorf" Franco conversa con Pacifico Rosicone
(contiene una bonus track di Marina Machì)
(contiene una bonus track di Marina Machì)
-
Ma spiegami, che ci sei andato a fare
all’alberghiero di Paola?
M’ingiunge con sagacia e
malizia il mio amico e sodale Pacifico Rosicone.
-
Per ascoltare Carmine Abate, lo
rimbecco convinto che il suo chiedere equivale a “pretendere spiegazioni”
-
Ma se lo avevi sentito altre volte!
Insiste e provoca
-
Non è la stessa cosa: riascoltare presuppone
un’attenzione rinnovata, arrischio per non abbandonare il dialogo
-
E che c’è di nuovo? Tutt’al più
assaggi una minestra riscaldata. Non demorde il Pacifico che non smette
di rosicare.
Abbasso le orecchie e mi fiondo in
una di quelle lunghe tirate cui non vorrei incatenarmi. So quanto le
argomentazioni scontano l’eredità degli sproloqui: dunque, mio non
caro, presenziare ad un’iniziativa culturale non equivale a riciclarsi in una
carta assorbente anonima e passiva che tutto ingoia e nulla seleziona.
-
Il conferenziere che parla e
posiziona frasi, riflessioni, perfino intercalari, propone schemi e forme
di interpretazione del vivere e, non raramente, del convivere, suscitando
curiosità, dubbi, interrogativi, ma anche consolidamento di certezze. Lui
lancia ami ed esche cui agganciarsi e/o farsi, a seconda dell’identità e dei
desideri dell’ascoltatore, eventualmente fagocitare. Dipende, quindi, da chi è
seduto di fronte a chi fa da conferenziere, rendere proficuo e fecondo ciò che
si dice per la circostanza
-
Ebbè, e allora? Che c’entra tutto
questo sproloquio,
non demorde, anzi si incarognisce il mio Lui
Insisto:
-
Io sono andato a sentire
Carmine Abate, nonostante lo avessi ascoltato in altre circostanze,
perché diverse sono le mie attese rispetto alle volte precedenti: oggi io
sono diverso da quattro anni fa, forse anche per merito di ciò che ascoltai e
appresi allora. Insomma voglio dire che il conferenziere non parla ad un
pubblico anonimo che non abbia un suo vissuto, che non abbia una sua catena di
riflessioni. Tutte cose che gli provengono dalle sue quotidianità, influenzate,
perché no, anche dall’ascolto della precedente puntata del Carmine Abate di
turno. Il conferenziere semina in un terreno che sia stato precedentemente
arato e sistematicamente ben trattato. Se manca uno di questi due elementi dell’incontro,
allora, e solo allora, non è il caso di andare a sentire che dice Carmine
Abate. Ma questo, scusami, vale per ogni forma di rapporto.
Non sono molto fiducioso di aver
centrato il bersaglio
-
Se ho ben capito, mi hai voluto dire
che la conferenza è un’occasione o, per chi la sa cogliere,
un’opportunità che favorisce la chiarificazione di dubbi che sono
preesistenti alla presentazione del libro, per rimanere alla nostra
fattispecie,
mi meraviglia con la sua
moderazione il non pacificato Pacifico.
-
Certo, l’Abbate che io ho ascoltato a
Paola era lo stesso di quattro anni fa, ma anche diverso rispetto ad allora,
perché io sono diverso da allora e percepisco, intuisco e penso cose che, anche
per merito suo, ma non solo, sono maturate in me come dubbi e certezze.
Essenziale, diciamocelo francamente, è continuare a vivere e interrogarsi dopo
aver ascoltato un intellettuale, aver visionato una mostra, presenziato ad un
concerto. Pretendere che chi argomenta su aspetti così importanti del vivere
come fanno gli intellettuali, esaurisca le nostre attese, equivale a inchiodare
il produrre critico ad una forca che ne strangoli gli sviluppi, che, ti ripeto
fino alla noia, dipendono anche da chi recepisce, riceve e fruisce quanto
gli viene proposto.
Sono consapevole di essere andato
lontano, per la verità non solo per colpa mia. Dovevamo parlare di Carmine
Abate che ha dialogato con gli studenti dell’Istituto Alberghiero di Paola
sull’ultimo suo libro “il bacio del pane”, che per la circostanza s’inscrive
nella dimensione vocazionale dell’Istituto e ci siamo impelagati nelle paludi
dei massimi sistemi. Ma subito tento di uscire dalle secche, convinto, a questo
snodo della discussione, che il mio sodale non si irrigidisca in un’ingenerosa
polemica. Entro nella concretezza dell’evento:
-
Carmine Abate ha sostenuto che la
dimensione dell’emigrante non è solo quella passivizzante, di chi subendo con
rancore l’esclusione di straniero coverà vendetta e rancore, ma anche quella di
chi si predispone a tesaurizzare quanto di nuovo s’annida e reclama scoperta
dall’altra parte della linea di confine. Non vincolarsi al nostalgico ricordo
di un passato che da prossimo si avvia a diventare remoto, ma aprirsi ad un
presente che investa in un futuro che si candida a diventare semplice, ma anche
complesso. Lo ha fatto Abate coniugando il suo essere calabrese e arbresh con
la condizione di germanese che
significa emigrante calabrese trapiantato temporaneamente in Germania con una lingua
sua, con tradizioni sue, con costumi comportamentali che sommano nella sua
persona tutte le varie identità che lo abbracciano e ne formalizzano
l’esistente. E’ lo stesso problema dei migranti che sbarcano in Italia
provenienti dopo mesi di viaggi attraverso nazioni ed etnie varie e si
avventurano a stabilizzarsi nel nord Europa. Sono Eritrei, Sudanesi, Libici, Somali
o altro in partenza, ma dopo queste traversate costituiscono un’entità
religiosa, linguistica, comportamentale, nuova, inedita, originale, rispetto
alla quale i termini calabrese, arbresh, italiano, tedesco, europeo, o anche
ghanese, somalo, nigeriano, attendono nomenclature nuove ed una rinnovata
sensibilità umana e, perché no, civile. Chi oggi se la sente di identificare la
terza generazione di Italiani di New York come Italiani o quella equivalente
per età di Algerini viventi nelle banlieue parigine come Algerini? Non
sono Italiani i primi, né Algerini i secondi, ma nemmeno Statunitensi e
Francesi. Come Carmine Abate non si circoscrive al suo passato e al suo presente,
anche i suoi eredi nel futuro saranno un’entità diversa da Italiani e Tedeschi,
ma anche da europei, occidentali e forse da altra qualificazione nazionale con
cui i loro antenati erano partiti dalle terre di origine. Vedo che ne ho
forzato un po’ il pensiero, ma come ti dicevo, chi ascolta piega anche ciò che
sente, curvandolo sulle sue aspettative, pur anche sulla sua ideologia
-
A questo punto le certezze saltano
e rimpiangere il tempo perduto diventa una chimerica pretesa, mi suggerisce
Pacifico.
Mi vengono in mente i proverbi
della nostra adolescenza: non tutti i mali vengono per nuocere, fare di
necessità virtù, storta va diritta viene, chi non risica non rosica, chi non
semina non raccoglie, e tanto oracolare che ci invitava a non fermarci
all’indignazione sterile, alla contestazione che si ingorgava nella lamentela,
l’inattività che si giustifica come attesa e denuncia priva di sbocchi.
Reputavamo, oggi lo capisco, complici e compromessi quelli che si sedevano al
tavolo delle trattative per patteggiare il che fare, dove e come farlo. Molti
di noi non capirono che tra il no ed il sì campeggiava un nì che andava
riempito di sensi e proposte innovative, prive di narcisistiche
autocelebrazioni. Ci fossimo soffermati a capire le ricchezze degli altri, non
solo le ragioni, oggi non stazioneremmo a litigare sulle necessità dei
migrantes, malintesi comunque ancora oggi come diversi da “tollerare”,
anziché come altri con cui valorizzarci a vicenda. Forse questa è
l’Intercultura.
-
Lo vedi come la discussione ci fa
incrociare a metà strada con il crescente dubbio di non sapere a chi di noi due
spetta la precedenza nel giustificare la mia scelta di ascoltare per una
seconda volta il medesimo conferenziere?
rispondo impensierito dal dovermi
arrestare incredulo ed indeciso su come proseguire.
Mi sovviene un ricordo che partecipo al riappacificato
Pacifico:
-
Ricordi il tempo in cui le
professioni di fede, non solo religiose, imponevano un mondo diviso e demarcato
da linee che non consentissero valichi e passaggi, talché muri e frontiere
negavano incontri e condivisioni, impedendo confronti e dialoghi? The Wall (ne
fu l’emblema mediatico e canoro), smantellato nell’’ottantanove a Berlino con
enfasi e furore, metaforici questi ultimi di una crisi delle ideologie vissute
come gabbie interpretative e isolazionismo autoreferenziale. Ognuno parlava per
sé, rifiutandosi di ascoltare l’altro, o peggio, reinterpretando l’altro da sé
secondo una scala di pregiudizi che minavano gli inviti ad incontrarsi. La
Dialettica (questa sì con la maiuscola), che menti elette avevano teorizzato,
era stata ignara, però, che le buone intenzioni a dialogare e contaminarsi, si
scontravano con una ingiustizia socio economica di caratura mondiale, tale da
dividere l’intero pianeta in una graduatoria che si arrestava solo per
insopprimibile pudore al quarto mondo. L’errore di fondo, perdonami per
l’apparente digressione, era nel confondere equivalenza ed eguaglianza nel
definire opportunità e risultati. L’emigrante, per ritornare a ciò che
maggiormente ci coinvolge, partiva e rimpiangeva la sua terra natia, il cattolico
non ascoltava le ragioni del protestante o il musulmano dell’ebreo,
l’europeo dell’africano, il giovane del vecchio, il maschio della donna, il
sano del malato, il piccolo del grande, il ricco del povero e potrei continuare
all’infinito a significare un’incapacità, se non volontà, ad ascoltare l’altro
in una logica di staticità e immobilismo che imprigionava menti, cuori,
sensibilità, aspettative, perfino ambizioni. Che accanto a simili chiusure, la
saracinesca veniva abbassata anche di fronte a usi e tradizioni degli altri,
non credo necessiti sottolineature. Ognuno per sé si fermava dinanzi al tutti
per uno, che si sbandierava spesso a sproposito, ma senza un’effettiva
concretizzazione. Era a questa l’Italia e al mondo intero cui ho pensato
allorquando Carmine Abate ha dichiarato di aver appreso e depositato, fatto
conoscere e scoperto, imparato e insegnato in una avventura di emigrante
che ad oggi è transitata linguisticamente verso la nuova versione di migrante,
ma pretende una nuova formalizzazione semantica. Perché diversa è la natura di
chi parte oggi rispetto a chi lo faceva cinquant’anni fa e speriamo che nei
prossimi decenni sarà maggiormente diversa.
-
Da quello che dici, ho il sentore che
ti sei ammorbidito, non mi sembri molto sicuro delle vecchie certezze, quando
non concedevi repliche a chi non condivideva il tuo pensiero.
Mi rimprovera e mi rinfaccia Pacifico Rosicone, felice di aver scoperto
una falla nelle mie granitiche convinzioni di un tempo.
Per la verità ho scoperto che anche
coloro che professavano fedi incrollabili non erano vaccinati contro
ripensamenti ed autocritiche. Se guardiamo al di là delle scorze individuali di
alcune figure emblematiche della storia che ci ha preceduti, forse queste
verità non ci sembrano nuove nelle cronache delle loro quotidianità. Ma al di
là di grandi discorsi, senza voler insaporire o insolentire nessuno, la verità
oggi è una sola: Nessuno possiede la verità in tasca e chiunque entra nella
casa dell’altro, non tralasci il suo bagaglio, ma non pretenda di depositarlo
nel luogo altrui senza rispettarne gli spazi e le compatibilità. Confesso con
candore la mia autocritica.
Per un attimo avevo perso di vista il
mio interlocutore, pensavo si fosse allontanato. Alla fine ho scoperto che era
sparito. Forse era corso all’anagrafe a cambiarsi nome e cognome.
Fatalmente ti trasformi e sei sempre tu
di Marina Machì
Carmine Abate, calabrese d’origine,
vissuto a lungo all’estero e poi in Trentino, riceve oggi in Calabria un
piccolo riconoscimento, da parte dell’Amministrazione comunale di Cosenza, e lo
riceve dalle mani di un’emigrata al contrario. Romana d’origine, vissuta a
Parigi, a Madrid e poi a Trieste, anche io, come lui, ho vissuto l’esperienza
di chi è considerato sempre altro (italiana in Francia, francese in Italia,
romana a Cosenza, calabrese a Roma). La
Calabria è dunque per me un punto d’arrivo e non un punto di partenza.
Ma il punto di partenza, quello di
arrivo e le terre di mezzo, ci insegna Carmine Abate, non si escludono, perché
si vive, anzi è necessario vivere per addizione (sintagma che ha dato il titolo
ad un suo libro). Non esiste identità pura.
“Être singulier pluriel”, essere singolare plurale,
senza virgole, senza interpunzione, scrive Jean-Luc Nancy. Il suo amico e
maestro, Jacques Derrida aveva coniato un neologismo, la différance (scritto
con la “a” invece che con la “e”), tradotto in italiano con “differanza”.
Cito spesso questa parola, mi è capitato di farlo
in più occasioni accogliendo gli studenti dei progetti Comenius ed Erasmus
ospiti delle scuole di Cosenza, mettendoli in guardia dal non cercare qui,
all’estero, lo stereotipo dell’altro, il folklore, in una canonica opposizione
stesso/altro, identico/diverso. Perché appunto la differenza/differanza
contiene il differire, non è statica, è un qualcosa di dinamico, è sempre in
movimento e questo continuo movimento è appunto ciò che definisce
l’identità.
Per dirla con i versi di Pedro Salinas:
“Tu sei il tuo stesso più oltre, come la luce e il mondo: giorni, notti,
estati, inverni che si succedono. Fatalmente ti trasformi e sei sempre tu, nel
tuo stesso mutamento, con la fedeltà costante del mutare”. (La voce a te dovuta)
Assieme all’amico Pino Sassano abbiamo
voluto intitolare l’incontro di stasera “I paesaggi di Carmine Abate”. I suoi
paesaggi, quelli così intensamente descritti nei suoi racconti e nei suoi
romanzi – la sinestesia di luci, suoni, colori, profumi – il rosso della
collina del vento, il suono della chitarra battente, i termini e le espressioni
dialettali, il profumo dei fiori e dei cibi – sono sì i paesaggi della sua
terra d’origine, ma segnati dalla giusta distanza (Gianluca Veltri in un
articolo dedicato al ciclo di Hora apparso su “Mucchio selvaggio” scrive
giustamente che “è tutta una questione di sguardo”), diventano paesaggi
interiori: landscape diventa inscape.
E questo passaggio, da landscape a
inscape, da paesaggio geografico a paesaggio interiore, lungi dal rendere
singolare l’esperienza dell’autore, la universalizza.
La condizione umana, l’essere, ce lo ha
insegnato Heidegger, è abitare. O meglio, abitare è essere. Ma essere, abitare,
non è riferito ad una casa o ad un luogo specifico, bensì si attribuisce ad
ogni luogo, al mondo stesso in cui si svolge la vita umana. Da-sein, “esserci” è
un’espressione poetica che designa, in un doppio senso, temporale e spaziale,
il limite esistenziale dell’essere umano.
E Carmine Abate, partendo dalla
Calabria, attraverso la sua scrittura, trasmette un sentimento di appartenenza
che è allo stesso tempo singolare - perché parte dall’esperienza del singolo -
e universale – perché appartiene a ciascuno di noi.
Grazie a Carmine Abate per aver
rappresentato universalmente i sentimenti della nostra terra.
Marina Machì
(in occasione del Telesio d’argento assegnato a Carmine
Abate)
22 dicembre 2012
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