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giovedì 29 settembre 2022

Perché Putin deve perdere la guerra in Ucraina

 (Corriere della Sera 22 giugno 2022)

di Jonathan Littell *

 

Putin è un uomo che nel ventunesimo secolo ha scatenato una guerra del ventesimo secolo per raggiungere obiettivi del secolo diciannovesimo.

 

Per il presidente russo la menzogna è uno strumento di lavoro, pensare di convincerlo a sedersi al tavolo dei negoziati in buona fede è ridicolo.

 


Da qualche tempo si sente ripetere da più parti un ritornello pernicioso: gli ucraini stanno esagerando, la NATO rischia grosso, pensiamo all’inflazione piuttosto, bisogna tener conto di Putin. La formulazione più esplicita viene dalla bocca di Henry Kissinger, il quale il mese scorso a Davos ha affermato che l’Ucraina deve accettare di cedere parte del suo territorio, se non si vuole rischiare « una nuova guerra (della NATO) contro la Russia».

In Germania, dove il governo di Olaf Scholz trascina i piedi nella consegna delle armi promesse all’Ucraina, una parte della classe politica sembra convinta che la soluzione alla dipendenza energetica del paese nei confronti della Russia non sia quella di sottrarvisi, una volta per tutte e per quanto dolorosamente, bensì di chiudere gli occhi e tornare pian pianino a soddisfare le proprie rovinose comodità. Emmanuel Macron, da parte sua, si è messo alla guida di questa fazione: « Non bisogna umiliare la Russia, » ha ribadito di recente, prima di prendere il treno per Kyiv. Che tragico errore! E quale segno di debolezza, e di mancanza di visione strategica, che Vladimir Putin non esiterà un solo istante a sfruttare con tutti i mezzi a disposizione. Secondo quanto dichiarava pochi giorni fa un miliardario russo, vicino al Cremlino, alla giornalista britannica Catherine Belton, Putin « è convinto che ben presto l’Occidente si stancherà… e che, nel lungo periodo, la vittoria sarà sua».

Per accelerare la nostra capitolazione, Putin non esita a utilizzare tutti i mezzi sottomano: massima pressione sulle forniture di gas e petrolio, attraverso tagli abilmente orchestrati, destabilizzazione dei Balcani, e ricatto sulla penuria di grano che ben presto sfocerà in una catastrofe umanitaria in Africa, con il rischio di una nuova ondata migratoria. Per non parlare, ovviamente, dello spauracchio nucleare, che è sempre pronto ad agitare, quasi fosse realmente disposto a trascinare il mondo intero, Russia compresa, verso l’annientamento, quando sono in gioco le sue ambizioni e la sua sopravvivenza personale.

Illusioni e bugie

Una volta svanita la sorpresa iniziale provocata dalla reazione rapida e coordinata dell’Occidente davanti all’invasione dell’Ucraina, oggi Putin punta nuovamente sui tempi lunghi, sulle divisioni tra i Paesi europei, ma soprattutto sulla nostra debolezza e sulla nostra totale incomprensione, quanto meno in Europa occidentale, quando si tratta di penetrare l’immaginario imperiale russo. Per Putin, come per il suo ministro Lavrov, la menzogna è al cuore stesso della sua formazione e rappresenta uno strumento naturale di lavoro. Il dialogo non serve ad altro che a prender tempo per far avanzare le sue pedine, prima di tornare alla forza bruta al momento opportuno. Un negoziato o un accordo – come quello di Minsk del 2015, che doveva metter fine al conflitto nel Donbass – altro non è che uno stratagemma per congelare una conquista, in attesa di un nuovo spiraglio opportuno per passare a nuove conquiste. E’ così che funziona. Soltanto immaginare, come fa Kissinger, di poter tornare allo status quo anteriore al conflitto è una pura e semplice aberrazione. Pensare che si possa convincere Putin a sedersi al tavolo dei negoziati in buona fede, e che sia disposto a rispettare (una volta tanto!) i termini degli accordi, è un’ipotesi del tutto ridicola. Se non ci fossimo mostrati così impotenti, così intimoriti, così ciechi, se avessimo riarmato l’Ucraina sin dal 2015, oppure inviato truppe NATO sul suo territorio, anche solo a titolo di consiglieri militari, mai e poi mai Putin – che capisce una sola legge, quella del più forte – si sarebbe arrischiato in questa guerra. Se gli si lascerà cogliere il minimo vantaggio dal conflitto in corso, non faremo altro che stabilire i presupposti per il prossimo.

 


La vergogna europea

Accogliamo con soddisfazione il ripensamento di Macron e di Scholz, che hanno finalmente capito di non poter più ostacolare la candidatura ucraina all’Unione europea. Nel frattempo, resta il fatto che le loro illusioni e vane speranze nei confronti di Putin sono dure a morire. Da decenni ormai una parte dell’Europa, a cominciare dalla Germania, ha affidato la sua sicurezza energetica a Mosca, beatamente ignorando gli avvertimenti degli scienziati sul clima, e respingendo ogni suggerimento di lasciarsi alle spalle i combustibili fossili. Quanto tempo sprecato, tutto a vantaggio della Russia. Dall’inizio della guerra, la Russia ha incassato 93 miliardi di euro per le esportazioni di gas e petrolio, erogate soprattutto all’Unione europea. La cifra equivale a due volte e mezzo i 37 miliardi di euro che gli Stati Uniti hanno promesso all’Ucraina. E adesso ci strappiamo i capelli perché i prezzi alla pompa superano i due euro al litro e ci diamo da fare per trovare vie di scampo. È una vergogna, è uno scandalo. Anche in Ucraina la benzina costa caro e le code davanti alle stazioni di rifornimento sono diventate interminabili. Ma nessuno si lamenta. Quello che chiedono gli ucraini non è combustibile a basso prezzo, bensì armi e munizioni per respingere gli invasori, liberare le loro città e riprendersi i loro territori. E hanno ragione. Con l’invasione dell’Ucraina, Putin ha rovesciato lo scacchiere dell’ordine globale stabilito nel 1945, nel secondo dopoguerra: è illusorio sperare di riattaccare nuovamente i cocci. Davanti al mondo, Putin e i suoi complici ringhiano senza tregua, è il loro normale modus operandi, ma tra di loro studiano attentamente i rapporti di forza per trarne freddamente le conseguenze.

Quando gli ucraini, grazie alla loro resistenza accanita, hanno bloccato l’offensiva russa su Kyiv, Putin ha ritirato le truppe, rivelando al mondo tutto l’orrore inflitto dal suo esercito «di liberazione» sui civili di Bucha, Irpin, Motyzhyn e tante altre cittadine. Quando Mykolaiv si è sollevata per fermare l’assalto venuto dalla Crimea in direzione di Odessa, Putin è stato costretto a rinunciare, per il momento, al suo obiettivo di impadronirsi del celebre porto sul Mar Nero. E adesso, finalmente consapevole della debolezza del suo esercito mal addestrato e roso dalla corruzione, davanti alle forze ucraine super motivate ed equipaggiate dall’Occidente, ecco che concentra tutti suoi sforzi sul Donbass, ricorrendo all’aviazione e all’artiglieria pesante per radere al suolo tutte le città, una dopo l’altra: il solo modo che gli resta per fare la guerra. Ma anche qui dovrà essere fermato, definitivamente, e respinto. La promessa americana e britannica di fornire lanciamissili a lunga gittata per riequilibrare i rapporti di forza rappresenta il primo passo nella buona direzione. Ma occorre fare molto di più. Putin è un uomo che nel ventunesimo secolo ha scatenato una guerra del ventesimo secolo per raggiungere obiettivi del secolo diciannovesimo. Per lui, che oggi si paragona a Pietro il Grande, l’annessione completa dell’Ucraina è una questione esistenziale che non ha nulla a che vedere con le sue accuse deliranti contro la NATO. Per lui, l’Ucraina non deve più esistere, punto. E non ci sarà nessuna concessione, nessuna apertura diplomatica, nessun compromesso «ragionevole», da parte nostra, a impedirgli di raggiungere i suoi obiettivi, o a salvaguardare l’integrità territoriale, politica ed economica dell’Ucraina, o del suo avvenire europeo. Chiedere agli ucraini di deporre le armi e di negoziare un Minsk 3, 4 o 5, significa preparare il terreno a una nuova invasione dell’Ucraina tra qualche anno, concedendo a Putin il tempo necessario per riorganizzare il suo esercito e stoccare nuovamente uomini, armi e munizioni. E se muore nel frattempo, ma il regime gli sopravvive, il suo successore seguirà le sue orme.

 

Il 9 maggio a Strasburgo, Emmanuel Macron, ipotizzando eventuali negoziati con la Russia, ha ricordato il trattato di Versailles che nel 1918, con l’umiliazione della Germania, «Purtoppo aveva funestato la via della pace.» Fu certamente vero nei confronti della Repubblica di Weimar, che rappresentò un coraggioso tentativo democratico. Però Macron, a quanto pare, non ha capito fino in fondo il momento storico che stiamo vivendo adesso. Se c’è stato un 1918 per Mosca, si è trattato del 1991. In seguito, come in Germania dopo il fallimento di Weimar negli anni Trenta, il potere fascista e revanscista, e per di più profondamente corrotto, si è insediato definitivamente in Russia, schiacciando la società civile e le sue forze vitali, appropriandosi dell’intera economia del paese a suo esclusivo beneficio, e sfidando il mondo democratico e l’ordinamento sul quale è fondata la nostra pace e la nostra sicurezza collettiva. Oggi non è più il 1918, bensì il 1939. E come per il Terzo Reich di Hitler, il cammino verso la pace prima o poi esigerà il rovesciamento totale del regime di Putin, che non corrisponde affatto alla Russia e al suo popolo, a dispetto di quel che ne pensi « l’Occidente collettivo ». Solo una Russia libera, democratica e governata dai suoi cittadini, non da una cricca mafiosa inebriata di ideali messianici, potrà rientrare nel consesso delle nazioni e diventare a pieno titolo un membro della comunità internazionale, come sono riusciti a fare, dopo il 1945, Germania e Giappone.

 

La sconfitta necessaria

Per i polacchi, i paesi baltici e i paesi dell’Europa centrale, questo concetto è talmente evidente che non perdono occasione per ribadirlo con tutte le loro forze. Gli americani l’hanno capito, finalmente, e operano in questo senso in accordo con i britannici. Persino i finlandesi e gli svedesi hanno abbandonato, dalla sera alla mattina, 80 anni di neutralità per cercar rifugio sotto l’ombrello della NATO, la loro unica garanzia davanti alle mire folli del regime russo. In Europa occidentale, invece, i nostri governanti, da sempre prigionieri delle loro ideologie, sprofondati nella pigrizia intellettuale e nella fiacchezza morale indotta da una pace troppo lunga, sembrano perennemente tentati dal compromesso. Il compromesso è spesso necessario, ma in questa situazione sarebbe una catastrofe per il sogno europeo e altro non farebbe che attizzare ancora di più le ambizioni di Putin. Solo la sconfitta militare completa delle forze russe in Ucraina potrà restituire una parvenza di sicurezza al continente. E solo sulla base di una sconfitta della Russia si potranno intavolare trattative e siglare accordi che avranno una qualche possibilità di rivelarsi duraturi. Senza una vittoria chiara e netta dell’Ucraina, tutta la diplomazia non produrrà altro che chiacchiere inutili, o la capitolazione. « Non bisogna umiliare la Russia. » Da vent’anni a questa parte, più si fanno acrobazie per accomodare la Russia, o quanto meno per gestire i rapporti con il paese, più Putin accusa l’Occidente di volerlo umiliare, proprio lui, che sa maneggiare l’umiliazione dei suoi interlocutori come una scienza esatta. Che si sia disposti a prestarsi al suo gioco meschino è davvero sorprendente. In realtà, Putin si umilia da solo, con la sua ambizione di sedersi tra i grandi della terra, senza rispettarne però le regole più elementari; disprezzando e violando i diritti dei popoli quando ne va del suo tornaconto, come si è visto in Cecenia, in Georgia, in Siria, e oggi in Ucraina; e scatenando una guerra con un esercito patetico, inetto, arcaico, e per di più depredato e affamato dai suoi generali. Se veramente ce l’ha con noi per tutto questo, se ce l’ha con noi a morte, non siamo affatto obbligati a presentargli le scuse: abbiamo invece il dovere di infliggergli una buona lezione e rispedirlo al suo posto, il posto che si è scelto di sua propria volontà.

 

 

 

* Jonathan Littell, scrittore statunitense di origine ebraica naturalizzato francese 

 

 

venerdì 2 settembre 2022

"o Marcello o Walter o Bruno"

 (messaggio augurale di MWB al dott. Mastrascusa)

"Il genetliaco ti sia fausto!"

(risposta di Luciano Mastrascusa)

"o Marcello o Walter o Bruno"


§


Infatti se ne sono andati tutti e tre in un colpo solo. 

(Quanto fossero fausti si è capito) 


Lacan, per sfottere Comunione E Liberazione (che era il riferimento culturale del suo traduttore Giacomo B. Contri), chiedeva ironicamente: "sicuri di quella "e"? Non è che sarà "Comunione O Liberazione"?  Morale della favola: il tripode, la trinità, non gli ha portato bene. Meglio sarebbe stato un Marcello o Walter o Bruno. Oggi almeno avremmo potuto cazzeggiare con uno dei tre.

(il postulatore per il candidato Mastrascusa)

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La Passe


(...) Jacques Lacan ha posto la questione del termine dell’analisi e della formazione degli analisti come centrale nella sua elaborazione, considerandola come la questione essenziale per l’esistenza del discorso analitico. Rifiutando ogni soluzione burocratica, che implicherebbe poter sapere in anticipo che cosa sia un analista attraverso una serie di qualità, caratteristiche e attributi che ne garantirebbero la qualifica, ha scelto di percorrere un’altra via.

Nel 1967 ha proposto alla sua Scuola la procedura della passe, procedura che è direttamente in relazione con il suo noto enunciato: “Lo psicoanalista si autorizza soltanto da sé”. Se questo enunciato indica che la qualifica di psicoanalista non si dà per cooptazione, tuttavia non indica affatto che chiunque possa dirsi analista a proprio piacimento. Occorre infatti che dell’analista ci sia, affinché si dia dell’autorizzarsi. (...) La logica che Lacan propone con la sua passe è dunque la logica dell’atto analitico, di cui la passe stessa è paradigma. Come dice Éric Laurent: “Un analista è prima di tutto un soggetto che sostiene un performativo. È quello che innanzitutto ha dichiarato ‘io ho terminato la mia analisi’, frase assai inverosimile da sostenere. È sicuro? È per questo che una volta che ciò viene detto, una volta che viene proferito, occorre sostenere questo performativo davanti a qualcun altro che ci è passato”.

Il passant incontrerà dunque due passeur, indicati o estratti a sorte da una lista di analizzanti, scelti a partire dal fatto di essere essi stessi in un momento di passe nella loro analisi, che ne ascolteranno la testimonianza. Un cartello della passe incontrerà successivamente i due passeur, che trasmetteranno la testimonianza che hanno ascoltato. Sarà il cartello della passe, grazie alla testimonianza indiretta che avrà ricevuto, a valutare se in quello che ha inteso ha potuto trasmettersi il termine dell’analisi e del desiderio dell’analista. In caso affermativo, il passant riceve la nomina di AE (Analyste de l’École – Analista della Scuola), nomina che ha la durata di tre anni, durante i quali l’AE avrà la funzione di trasmettere alla Scuola e anche al di là di essa, un insegnamento che, partendo dalla singolarità della propria esperienza, illumini e reinventi i punti cruciali della psicoanalisi.
E' dunque la logica dell’atto analitico che conduce il dottor Mastrascusa a obiettare a MWB la seguente considerazione: 
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Monsieur le Professeur Rovella,

con la presente sono a segnalarle un testo "remarquable" di Monsieur le Docteur Mastrascusa, che sembra cifrare perfettamente una teoria del destino agìta dal nostro amico MWB, di fatto l' omen (secondo Szondi), oltre che coerente con la nostra proposta bartezaguiennes e prim'ancora lacaniana. 

                                (messaggio augurale di MWB al dott. Mastrascusa)

"Il genetliaco ti sia fausto!"

(risposta di Luciano Mastrascusa)

"Fausto un accidenti o Marcello o Walter o Bruno"

Il y est question de la production possible à la fin d’une analyse d’« un fonctionnaire du discours analytique, qui n’est pas pour autant indigne de la passe, où il témoignerait de ses premiers pas dans la fonction?». Je l’interprète ainsi : le fonctionnaire est celui qui met en fonction, qui fait fonctionner le discours analytique.

Lacan écrit : « La psychanalyse peut accompagner le patient jusqu’à la limite extatique du “tu es cela”, où se révèle le chiffre de sa destinée mortelle, mais il n’est pas en notre seul pouvoir de praticien de l’amener à ce moment où commence le véritable voyage?[5] Elle existe à être dite aux passeurs. Deux éléments la constituent donc : le passant et les passeurs. Ils sont la passe. Mais pas de la même façon : l’un la franchit, et pour la franchir il lui faut celui qui peut témoigner qu’il l’a franchie. 

Qu’il est « affranchi ». C’est un événement exceptionnel, un lien d’humain à humain, un lien social inouï (inaudito).

Si la passe est hors cure, pour autant elle n’est pas sans la cure. Elle lui est supplémentaire. Elle répond au fait que la psychanalyse n’est pas transmissible selon les modes habituels. Les examens de passage pour consacrer l’analyste professionnel de certaines associations évacuent la découverte de ce désir inédit, ce « pari fou » à partir duquel un analysant s’autorise à occuper la place de l’analyste pour d’autres. Il ne s’agit pas de désirer être analyste dans la visée d’une assise professionnelle au terme d’une longue analyse, mais d’un désir particulier. « Il n’y a d’analyste qu’à ce que ce désir lui vienne, soit que déjà par là il soit le rebut de ladite [humanité]?[6]

Quelque chose qui est interne même à la structure du discours empêche que la vérité puisse se dire toute : c’est le réel, point d’indicible et d’irreprésentable que le signifiant ne peut recouvrir complètement. C’est la rencontre de ce point, de ce trou, au-delà du mi-dire, qui fait de l’analysant un rebut, quand il se met en place d’analyste. « S’il n’en est pas porté à l’enthousiasme, poursuit Lacan dans la “Note italienne”, il peut bien y avoir eu analyse, mais d’analyste point?[7].

C’est la marque de ce rebut que ses « congénères » doivent trouver, et que la passe illustre : « Assez, dit Lacan, pour que les passeurs s’y déshonorent à laisser la chose incertaine, faute de quoi le cas tombe sous le coup d’une déclinaison polie de sa candidature?[8]

Ce qui est déshonorant pour un passeur, c’est de s’en tenir au savoir acquis, de la théorie, en évitant de se prêter à l’invention de savoir que risque le passant, et qui le concerne tout autant. Il se met alors en position de fonctionnaire du savoir, dans une simple fonction d’enregistrement, de psychanalyste, de contrôleur ou d’universitaire, et décline l’expérience du passant comme un cas.


[9] (À propos du terme de fonctionnaire, il y a encore une ambiguïté dans la « Note sur les passeurs ». 

Il y est question de la production possible à la fin d’une analyse d’« un fonctionnaire du discours analytique, qui n’est pas pour autant indigne de la passe, où il témoignerait de ses premiers pas dans la fonction?». Je l’interprète ainsi : le fonctionnaire est celui qui met en fonction, qui fait fonctionner le discours analytique. Mais pour être analyste de l’École, il doit témoigner de ce qui lui permet de faire fonctionner le discours analytique.)

[5]

Jacques Lacan, « Le stade du miroir comme formateur de la…. »

[6]

Jacques Lacan, « Note italienne », dans Autres écrits, op.…. » 

[7]

Ibid., p. 309.. »

[8]

Ibid.. »

[9]

Ibid., cf. notes 2 et 3. 

17 Jacques Lacan. La famille. Encyclopédie Française, tome 8,40,3-16,1938.

18 Sigmund Freud (1915). Pulsions et destins des pulsions. In Métapsychologie. Paris, Gallimard Idées,1968, pp. 18-20.

19 Jacques Schotte. Notes d'un séminaire inédit, vers 1980.

La mise en rapport des vecteurs szondiens et des fantasmes originaires permet de les considérer, d'un point de vue topique, comme les lieux ou les scènes d'une problématique, d'un traumatisme ou d'un complexe 17, d'une angoisse, du primat d'un déterminant pulsionnel 18, d'un désir 19 et d'un destin pulsionnels 20 dotés chacun d'une relative spécificité:


Vecteurs C S P Sch

Quand il produit son système des pulsions, SZONDI en distingue quatre, qu'il juge fondamentales.

Ce sont:

la pulsion du Contact (C)

la pulsion Sexuelle (S)

la pulsion des affects,appelée Paroxysmale (P)

la pulsion du moi (Sch), Sch correspondant ici aux trois premières lettres de schizophrénie.


Pour conclure 

Au terme de cette étude, s'il fallait schématiser nos résultats de manière un peu caricaturale,mais la caricature n'est pas simplificatrice, nous dirions que:

• les sujets décidés, surtout les filles, apparaissent comme bien adaptés, peut-être hyperadaptés, guidés par un idéal principalement éthico-moral qui en font des sujets plutôt conformes sinon conformistes, attachés à leur milieu (familial) et aux valeurs de ce milieu. Sauf exceptions (-Benoît 10 et, dans une moindre mesure Alain 7), la structure de la personnalité est névrotico-normale, axée sur le refoulement entendu dans son sens normatif:mise à l'écart d'une vie pulsionnelle-fantasmatique trop envahissante et, corrélativement, contre-investissement de la réalité externe concrète.

Les filles sont incontestablement mieux structurées que les garçons,surtout dans le sens où leur identification sexuelle pose moins de problème et, l'une étant sans doute liée à l'autre,leur tendance à la régression prégénitale est plus modérée.

• les sujets hésitants sont ceux qui "se font un problème" de tout,ce qui fait d'eux des sujets qui, selon la formule consacrée de FREUD, ont tendance à "régresser de l'acte à la pensée", ce qui est une caractéristque "obsessionnelle" typique.

Les hésitants s'opposent en tout cas aux décidés sur ce point précis: il n'y a pas chez eux ce contre-investissement de la réalité" qui est corrélatif d'un refoulement adaptatif.Ce sont plutôt des "penseurs-rêveurs" chez qui, pour une moitié d'entre eux, joue à plein le mécanisme de l'isolation au sens d'une dissociation ou d'un clivage entre la question du but (h,e,p,m) et des moyens ou des objets (s,hy,k,d) qui permettent d'atteindre la satisfaction-but. Ce qui les caractérise par ailleurs et davantage que les autres groupes,c'est que tous ces sujets hésitants sont confrontés à la question de l'inversion sexuelle sans qu'on puisse dire si celle-ci est plutôt constitutionnelle,innée,ou si elle correspond à un aménagement névrotique classiquement rencontré chez les sujets dont l'organisation psychique globale s'oriente de manière prévalente dans le sens obsessionnel:identification virile-active des filles, identification féminine des garçons.

Ce qui est sûr, c'est que les filles développent des défenses névrotiques contre leurs tendances viriles, ce qui explique certainement pour une grande part l'importance que prend chez elles la conflictualité intrapsychique élaborée sur le mode de la relance auto-réflexive permanente, tandis que les garçons paraissent beaucoup plus désorientés face au problème que leur pose leur inversion avec comme conséquence une fragilité certaine qui les mène au bord de la dépersonnalisation.



 Charles Baudelaire: "La caricature est double: le dessin et l'idée; le dessin violent, l'idée mordante et voilée; complication d'éléments pénibles pour un esprit naïf, accoutumé à comprendre d'intuition simple des choses simples, comme l'esprit simple qu'il est lui-même".


Dal campo freudiano a quello bartezaguiennes


C’è un celebre testo di Lacan, dal titolo praticamente intraducibile, L’Étourdit, che inizia con una frase, anch’essa celebre: «Che si dica resta dimenticato dietro ciò che si dice in ciò che si intende». Qui, Lacan distingue accuratamente i suoi tre registri: c’è “ciò che si dice”, ossia il significante, e “ciò che si intende”, il significato. E poi c’è un “che si dica”, un registro del dire che si distingue sia dal simbolico che dall’immaginario, ed è il registro del reale. Che l’uomo sia un  animale che ha la parola, non significa semplicemente che sia un animale che comunica, perché questo lo fanno tanti altri animali. Il linguaggio non è un attributo, ma fa parte dell’essere dell’uomo, un essere che si realizza, che si fa reale parlando. Il linguaggio è ciò che provoca un’altra soddisfazione nel parlante, altra rispetto a quella del bisogno, ed è con questa soddisfazione che l’analisi deve lavorare, facendola emergere, estraendola, lavorandola, moderandola, limitandola. 

È per questo che Lacan parlerà di linguisteria, più che di linguistica, nell’ultima parte del suo insegnamento: una linguistica sui generis, al cui interno spicca la questione isterica, ossia quella squisitamente psicoanalitica.

(Fulvio Marone) 

 


Au cœur de la passe, les passeurs - Laure Thibaudeau

Psychanalyse 2016/2 (n° 36)


§


Dal campo freudiano a quello bartezzaghiano 

 http://bugiadri.blogspot.com/2019/05/tanto-salvini-non-sa-fare-le-parole.html


Lacan ha cercato di dare un’altra direzione all’uso del linguaggio in psicoanalisi. Faccia parole crociate: non è solo il suggerimento che dobbiamo dare a quei pazienti che vengono a cercare da noi qualche rimedio per gli inevitabili disturbi della memoria dell’età, ma è anche il consiglio al giovane psicoanalista che Lacan pone come epigrafe della seconda parte di “Funzione e campo”. Le parole crociate, infatti, esemplificano perfettamente quella letteralità dell’Altra scena che Lacan rendeva con la sua celebre affermazione “l’inconscio è strutturato come un linguaggio”. Lacan, è noto, ha utilizzato lo strutturalismo di de Saussure, di Lévi-Strauss e di Jakobson per rileggere come saggi di linguistica alcuni testi che hanno fondato la psicoanalisi : L’interpretazione dei sogni, La psicopatologia della vita quotidiana, Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio. La distinzione tra significante e significato, la traduzione delle caratteristiche particolari del sistema inconscio in termini di metafora e metonimia, il concetto stesso di struttura hanno permesso di fondare su basi scientifiche più ampie la teoria psicoanalitica.

Fulvio Marone

VIII Convegno Nazionale FPL, Milano 1-2 giugno 2013

in  http://www.psychomedia.it/isap/marone2.htm


BMW e il doppio Baudrillard

 



La Star viene creata il 21 giugno 1948 da Regolo Fossati. 

Il nome dell’azienda nasce dall’acronimo di Stabilimenti Alimentari Riuniti e corrisponde, contemporaneamente, alla traduzione inglese del nome della moglie di Regolo Fossati, Stella (Piluso, 1995)

Star - Dado Doppio Brodo con Aldo Fabrizi, Regia di Vito Molinari, Sceneggiatura di Marcello Marchesi.

Con MWB - sulla scia dei calembour di Lacan - Baudrillard all'Unical 

di buon grado per due giorni si trasformò pure in un dado, quello del doppio brodo Star.

L’idea baudrillardiana di simulacro e di simulazione, di iperrealtà collimava con quella etnologica di bilocazione di una veggente molto famosa e venerata qui in Calabria (Natuzza Evolo) e con gli avvistamenti del Prof. Piperno in più città contemporaneamente. 

Da qui l'idea del "doppio", il doppio Baudrillard.


Nella foto di Annarosa Macrì 
Marcello alla lavagna in versione Doppelgänger