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venerdì 13 agosto 2021

Dove state andando?

 

 

Chora, dal Timeo platonico fino a Derrida, è parola di difficile traduzione oltre che di aspra concettualizzazione. Luogo, posto, ricettacolo e nello stesso tempo non luogo. Più che “è” sta per “può”, “può essere”? Traduzione possibile “che non esaurisce la questione. Infatti: che cosa ha possibilità? Chi può?” – si chiede Peppe Barresi in un libro collectaneo dedicato appunto a Jacques Derrida e ai “Luoghi dell’indecidibile”. A qualcuno ricorderà forse l’obamiano-veltroniano “Yes, we can”, ma poco gli somiglia. In altri passi vengono citati quell’incoraggiamento, affettuoso e problematico, indirizzatogli da Jean Hyppolite “non vedo dove lei vada”. Ricorda Derrida “di avergli pressappoco risposto così: se io vedessi chiaramente, e in anticipo, dove vado, credo di sicuro che non farei mai un passo in più per recarmici. (…) A che pro andare dove si sa che si va e dove si sa destinati ad arrivare”. Più avanti, nello stesso libro – edito da Rubbettino Università – si ritrova ampiamente citato un testo di Jacques Bouveresse (ci limiteremo per esigenze di spazio a rimarcarne il solo titolo): “L’oscurità del tempo presente”. (Luoghi dell’indecidibile. Jacques Derrida, a cura di Francesco Garritano ed Emilio Sergio, Rubbettino, 2012). Lì si discuteva del Wittgenstein politico, della sua ritrosia, del suo “sarà rivoluzionario colui che potrà rivoluzionare se stesso”. Ancora una volta un “potrà”, una possibilità espressa al futuro.

Occorrerebbe chiedere soprattutto al M5S dove vuol andare e a fare cosa. Ci auguriamo, perlomeno a liberarsi del salvinismo che si è incistato nel Movimento e in quel poco che resta. Forse meglio chiedere a Luciano Scalettari e Gherardo Colombo, rispettivamente presidente e presidente onorario di RESQ people, da pochi giorni in mare con la nave (ex) Alan Kurdi, grazie al sostegno di oltre 3 mila donatori. Salpata da Valencia, è diretta nell’area di ricerca e soccorso al largo delle coste libiche. Ad attenderli ci sarà la rinnovata ostilità della cosiddetta Guardia costiera libica, quella foraggiata dal ministro Di Maio che – come scrive Nello Scavo - governa i flussi migratori e il traffico illecito di carburanti e stupefacenti, e che rivendica come acque territoriali. Dove state andando? Rispondono Gherardo Colombo e friends: a salvare vite umane, profughi, migranti, clandestini, poveri cristi: evitando che affoghino. E - perché no? – a salvare dal fuoco la costa calabra, sarda, siciliana, greca, turca e cipriota. Quando riusciremo a spostarci di un millimetro dall'agenda salviniana, che ancora – non sappiamo con quale faccia – tuona contro la ministra Lamorgese che oltretutto in periodo di pandemia è costretta a combattere con le navi quarantena? Non solo per “ospitare” le persone soccorse in mare o chi sbarca autonomamente sul territorio italiano, ma anche per chi arriva dalla frontiera terrestre. Diamo tempo al presidente Draghi, ma è poco e occorre accelerare su moral suasion e provvedimenti indirizzati a una politica con una governance di concertazione tra l’azione dello Stato, le collettività pubbliche e gli strumenti di democrazia partecipativa. Ad esempio è il caso delle ONG e di ResQ. E prima ancora dell’esemplare modello di ospitalità e integrazione di Riace. Al cui (ex) sindaco ancora nessuno ha chiesto scusa.

Ancora una volta giunge la fecondità di un Jacques Derrida. “Il mio linguaggio porta numerosi segni di cristianesimo, è segnato dal cristianesimo. Cristiano significa anche ebreo e islamico, le tre tradizioni di Abramo. Il mio discorso è segnato dalla complessa tradizione di Abramo. L’amico Jean–Luc Nancy sta preparando un libro dal titolo “Decostruzione del cristianesimo”, e per averne letto alcune pagine so che anch’egli pensa come me che non possiamo sfuggire senza colpo ferire a tutto ciò che chiamiamo cristianesimo” (Jacques Derrida, Safaa Fathy, Tourner les mots. Au bord d’un film, Galilée - Arte éditions, Paris 2000, traduzione italiana di Marina Machì e Francesco Garritano).

Gli arbëreshë, ossia gli albanesi d'Italia, sono una minoranza linguistica e culturale presente nel meridione d’Italia. Di questa antica collettività, detta Arberia, fanno parte circa 100mila persone e tra questi, almeno l'80%, parla o comprende la propria variante locale dell'arbëresh, la lingua del gruppo. Gli italo-albanesi sono disseminati in Campania, Molise, Puglia, Basilicata, Sicilia e, soprattutto, Calabria, dove c'è la comunità più numerosa, con oltre 58.000 persone. Solo pochi mesi or sono e ancora oggi abbiamo sentito che gli albanesi usano definirci “fratelli”, mentre noi calabresi negli anni 80 optammo – con attenuata riconoscenza – per l’appellativo “cugini”. Per riferirci ai lavavetri, ai venditori di accendini, insomma ai vucumprà che stazionavano ai semafori.

Non a caso Sergio Mattarella, a settembre del 2018 in uno dei suoi primi viaggi istituzionali, ha reso omaggio alla figura di Giorgio Castriota Skanderbeg nel giorno del 550° anniversario della sua morte. Skanderbeg, ovvero l'eroico difensore dell'indipendenza albanese (in turco: Iskander è Alessandro, con allusione a Alessandro il Grande).

Così il Capo dello Stato si è recato a San Demetrio Corone, in provincia di Cosenza, dove ha incontrato il suo omologo albanese, Ilir Meta, e insieme hanno inaugurato una targa commemorativa dedicata a Skanderbeg.  “La diaspora albanese – ha ricordato Mattarella – identificò proprio in Skanderbeg il collante per mantenere vivo il legame con la patria d'origine, integrandosi pacificamente ed efficacemente in varie zone d'Italia”. “Gli arbëreshë – ha sottolineato il Capo dello Stato – costituiscono una storia di integrazione e accoglienza che ha avuto pieno successo, un esempio di come la mutua conoscenza e il reciproco rispetto delle culture siano strumento di crescita per le realtà territoriali e per i Paesi in cui le diverse comunità vivono”. “La preservazione delle antiche origini, la reciproca influenza, la fusione armonica di lingua, cultura e tradizioni – è stato l’elogio di Mattarella – sono state nei secoli e sono ancora oggi il valore aggiunto di queste comunità. Realtà che svolgono un'essenziale funzione di ponte tra i ‘due popoli di fronte', come spesso ci si riferisce ad albanesi e italiani” (Mirko Bellis, 8 novembre 2018, in fanpage.it).

Preciso e oltremodo pedagogico, ma troppo sottile, il messaggio indirizzato all'allora ministro degli interni, quello di "prima gli italiani". Figuriamoci poi per chi da troppo tempo ambisce a fare il ministro degli esteri ma è troppo debole in storia, geografia e geopolitica.

 

 


Agosto 1991, gli albanesi sbarcano in Italia

E' questione antica, di relazioni di prossimità, vicinanza e amicizia tra i popoli. O - se vogliamo - di contagio massmediale all'epoca delle tv berlusconiane. Molto più antica di quando l'8 agosto 1991 vedemmo arrivare a Bari la nave Vlora, proveniente dal porto di Durazzo, con un carico di ventimila albanesi saliti a bordo con la forza. "Vlora" significa "nave dolce", anche perché trasportava tonnellate di zucchero di canna imbarcato a Cuba. Dopo il crollo del regime di Enver Hoxha, l'imbarcazione venne assaltata da cittadini albanesi attratti dal miraggio di una vita migliore in Italia. Ancora non erano all'orizzonte le ONG, i taxi del mare di Di Maio e i fantasmi degli irregolari e dei clandestini di Meloni, Salvini e Santanché, ma anche noi italiani usammo l'inganno per il rimpatrio degli esuli. Così i migranti salirono sugli aerei convinti di essere trasferiti a Roma o a Venezia. Mentre le persone a bordo del Vlora vennero prima sistemate nello stadio della Vittoria di Bari e poi, con la falsa promessa di essere trasferite a Venezia, rimpatriate a Tirana. Esattamente come oggi incarichiamo e finanziamo la guardia costiera libica al fine di riportarli nei lager. Ancora non c'era il coronavirus ma 2000 albanesi riuscirono comunque a darsela a gambe. E comunque erano mesi che già accoglievamo barche e barchini, navi mercantili e imbarcazioni di ogni tipo. Soprattutto a Brindisi. Fuggivano dalla crisi economica e dalla dittatura comunista in Albania. Fu un esodo biblico, il primo verso l'Italia, che molto ha alimentato il cinema europeo. In un primo momento se ne contarono 18mila, ma con il passare delle ore il numero di profughi salì a 27mila.  I brindisini si trovarono di fronte a un fiume di persone stremate e senza forze, affamate e assetate. Molti i cittadini che si prodigarono negli aiuti alimentari, vestiario e medicinali. Dalle navi scendevano donne, bambini e uomini in condizioni disperate. Fuggivano da un paese in piena crisi economica e per loro l'Italia rappresentava un futuro migliore. Avevano immaginato una terra promessa guardando i programmi televisivi italiani. Film e talk show che descrivevano benessere e ricchezza e avevano contribuito a costruire quel sogno.

Ancora non usavamo definirli migranti economici o irregolari o - peggio - clandestini. L'Italia non era pronta ad accogliere un flusso migratorio così ampio. Mancavano le strutture dove portare i profughi. Scuole, parrocchie, centri sociali diventarono punti d'accoglienza. Alcuni dei profughi sbarcati a Brindisi furono poi trasferiti, in Sicilia, in Basilicata, alcuni ospitati in abitazioni private o ex istituti di assistenza sparsi in tutta Italia.  L'emergenza non riguardava solo l'assistenza e la sistemazione dei migranti, ma anche la presenza di molti minori che si erano imbarcati senza i genitori, ma che attendevano di ricongiungersi a loro.

Il sesto governo Andreotti tentennò per cinque giorni prima di intervenire decidendo di aiutare i boat people. Il mondo è piccolo e il semplicismo dell'algoritmo xenofobo sempre lo stesso. Indovinate chi sostenne che i profughi andavano "ributtati in mare" e "le navi affondate"? La presidente della Camera Irene Pivetti. E, quasi 30 anni dopo, Giorgia Meloni.

Il Vlora è una latrina maleodorante. Zero empatia ma vero. Oggi siamo all’africano che arrostisce un gatto in stazione. Spiega Soumaila Diawara: “dalle mie parti, e similmente in tanti altri luoghi (ricordo che l'Africa è un continente di 54 paesi), gli adulti non mangiano i gatti! E se un ragazzo si mette su un marciapiede ad arrostire un gatto significa che c’è qualcosa che non va. È molto probabile che sia una persona che va aiutata, non messa alla gogna mediatica” (ma non ditelo all’europarlamentare Susanna Ceccardi).

Così la polizia dirotta tutti verso il vecchio stadio di calcio, in attesa del da farsi. Giulio Andreotti, detta da Roma questa dichiarazione: “Non siamo assolutamente in condizione di accogliere gli albanesi che premono sulle coste italiane e lo stesso governo di Tirana è d'accordo con noi che debbono essere rinviati nella loro nazione”. (Praticamente la stessa dinamica tra Italia e Tunisia).

Allo stadio scoppia la guerriglia. I più giovani divelgono le gradinate e tirano sassi alla polizia. Scontri duri per tre giorni, i più violenti domenica 11 agosto, con 40 feriti tra le forze dell'ordine e un numero imprecisato fra i manifestanti. Gli esuli vengono sfamati e dissetati dal cielo, con sacchi lanciati da elicotteri.  Rimasero in Italia i 1.500 che avevano fatto domanda di asilo politico.  Intanto, viene organizzata la più importante operazione di rimpatrio della storia repubblicana. Tra aerei militari, Alitalia e motonavi. Fingendosi albanese, s'imbarcherà clandestinamente anche Marco Guidi inviato del Messaggero (a cui attingiamo a piene mani per questa cronaca).

Gianni De Michelis, ministro degli Esteri, volò a Tirana a illustrare un piano di aiuti italiani: 90 miliardi di lire per alimenti, 60 per il decollo industriale, forniture per far riaprire a ottobre le scuole, e cooperazione nell'ordine pubblico per impedire nuove partenze. Il vice presidente del Consiglio era Claudio Martelli, Valdo Spini uno dei sottosegretari agli interni, Mino Martinazzoli ministro delle Riforme istituzionali e Margherita Boniver aveva la delega degli Italiani all'estero e all'immigrazione. Antonio Maccanico quella agli Affari regionali, poi passata a Francesco D'Onofrio. Insomma la classe dirigente sembrava venuta da un altro pianeta e ciò nonostante ci furono lamentele per i modi sbrigativi del rimpatrio. I deputati del PDS “pur condividendo la decisione dolorosa di rinviare i profughi in Albania” denunciarono “la scelta scellerata di non rispettare i diritti umani, negando loro una assistenza decente”.

Il riferimento è a un regime comunista ormai allo sbando. Ciò non toglie che, in quegli anni, l'Italia in generale e la Puglia in particolare dessero grandissime prove di accoglienza. Tra Roma e Tirana si stipulerà più tardi un accordo modello, in grado di favorire l'immigrazione regolare. Niente di più lontano dalle proteste fascio-leghiste organizzate dai cittadini di Amantea contro il trasferimento di 13 cittadini del Bangladesh - positivi al coronavirus - in un centro di accoglienza presidiato h24 dalle forze dell'ordine. Pattuglia residuale di altre 53 persone sbarcate a Roccella Jonica.

Vittorio Zito, sindaco di Roccella, si ricollega così - idealmente - allo sbarco del 1991. "Roccella ospita 20 migranti, minori non accompagnati, sbarcati la scorsa notte. Lo fa perché è un suo preciso dovere dettato dalla legge. Ma lo fa anche perché crede che quando si è chiamati a svolgere il proprio dovere lo si deve fare fino in fondo. E se è tuo dovere organizzare l’accoglienza dei minori non accompagnati – ragazzini di 13, 14 o 15 anni che hanno negli occhi la tristezza della fuga dalla propria casa, il dolore per quello che hanno visto e la paura per il futuro – lo fai al meglio e basta. Poi, quando ti dicono che tra di loro ci sono 5 casi di positività al COVID 19, ti metti subito al lavoro per gestire in piena sicurezza questa situazione, al fine di non generare alcun pericolo per i cittadini e i turisti. Ma facendo attenzione a non abbandonare nemmeno per un istante la preoccupazione di garantire il pieno rispetto della dignità di questi esseri così fragili".

Questa è una delle calabrie etiche, intelligenti, rispettosa della carta costituzionale, desiderosa di trovare soluzione ai problemi. Avanziamo, ma è solo una suggestione, che sia stata influenzata dalla cultura jazz che ha accompagnato per 41 anni questi luoghi.


E non è solo Arbëria, studio delle lingue e delle tradizioni. La Chiesa della comunità arbëreshë e la Chiesa di rito greco-cattolica in Albania (detta ortodossa o di rito bizantino). E’ merito delle cattedre di Lingua e Letteratura Albanese delle Università della Calabria e di Palermo, rette da Francesco Altimari e Matteo Mandala, e di Michela Matuella che a Bruxelles è responsabile dei Balcani occidentali su incarico del presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, che scrive così: “il futuro dei Balcani Occidentali, e pertanto anche quello dell'Albania, è nell'Unione Europea. Il processo di allargamento premia il merito dei paesi che adottano riforme per lo stato di diritto, i diritti fondamentali ed i processi democratici. La Commissione Europea continuerà il suo dialogo con l'Albania su questi temi, per il bene dei cittadini albanesi». L'esatto contrario di Polonia e Ungheria, ora alle prese con le procedure d'infrazione per leggi anti-Lgbtq. Scrive Claudio Tito su la Repubblica (15 luglio 2021): “La Polexit, ossia l’uscita della Polonia dall’Unione europea, resta un evento improbabile. Ma da ieri non più impossibile. Lo scontro tra Bruxelles e Varsavia, infatti, sta raggiungendo vette altissime. La Corte Ue ha bocciato la riforma della giustizia polacca e la Commissione ha avviato – così come contro l’Ungheria – una procedura d’infrazione contro la legislazione cosiddetta “Lgbt-free”. Inconciliabile con i valori europei”.

Il viaggio questa volta è da Bari a Durazzo – scrive giovedì 5 agosto sull’Ansa Isabella Maselli. “Trent'anni dopo lo sbarco della Vlora nel capoluogo pugliese, alcuni di quei 20 mila profughi partiti dall'Albania portando con sé solo speranza e sogni, sono diventati artisti, professionisti, imprenditori di successo. Ad esempio è il caso delle lastre di marmo e di travertino …

Nel trentennale dello sbarco, la Puglia e l'Albania vogliono ricordare. E lo fanno con alcuni dei protagonisti di quel viaggio sulle due sponde dirimpettaie dell'Adriatico, lì dove i destini di due popoli si sono uniti, sulla rotta tra Durazzo e Bari. E che oggi viene raccontata a ritroso grazie alle fotografie di Eva Meksi.

Eva, all'epoca 24enne, era tra quei 20 mila. Certo - racconta - sono stati anni difficili. Per più di un anno io e mio marito ci siamo dovuti nascondere, eravamo clandestini considerati invasori, quasi ci vergognavamo di esistere, cercavamo di essere più invisibili possibile, perché clandestino era sinonimo di delinquente, invece eravamo persone che soffrivano".

Il sesto governo Andreotti tentennò per cinque giorni prima di intervenire decidendo di aiutare i boat people. Il mondo è piccolo e il semplicismo dell'algoritmo xenofobo sempre lo stesso. Indovinate chi sostenne che i profughi andavano "ributtati in mare" e "le navi affondate"? La presidente della Camera Irene Pivetti. E, quasi 30 anni dopo, Giorgia Meloni.


Scrive Luciano Violante: "L'intelligence guarda ai fatti che nel futuro potrebbero accadere, si fonda perciò sulla previsione di accadimenti per prevenirli, per propiziarli o per condizionarli. Nella sua attività si muove all'interno di un contesto politico e geopolitico che ne indirizza gli orientamenti”. E se ne intravvede una logica radicalmente diversa, laica, pragmatica.

 

(Nella prossima puntata: una proposta che viene dall’Università della Calabria, che riprende le ricerche dell’antropologo Vito Teti e il sedimento della cultura paesologica in vari testi già circolati nel 2018 presenti in http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/riabitare-i-paesi-un-manifesto-per-i-borghi-in-abbandono-e-in-via-di-spopolamento/)

mercoledì 11 agosto 2021

Derrida lontano da El-Biar

Ironia volle che Jacques Derrida, il 15 luglio 1930, nascesse proprio a El-Biar. Luogo dove il filosofo di origine algerina – dopo un attentato - non poteva più tornare. Così Safaa Fathy venne delegata da Derrida a filmare, in sua assenza, i luoghi della sua infanzia. “Rappresentazione armata di una videocamera” attraverso la quale lei vede con gli occhi di lui, e viceversa. (Cfr. Tourner les mots, opera scritta da Derrida e Safaa Fathy a partire dal film D’ailleurs, Derrida, presentato in anteprima nazionale al teatro Rendano di Cosenza il 17 gennaio 2001). 


(Prendo dapprima Hegel alla lettera).

La parola della riconciliazione, Das Wort der Versonung, non la parola “riconciliazione”, ma la parola di riconciliazione, cioè la parola della riconciliazione, la parola attraverso la quale si avvia la riconciliazione, si offre la riconciliazione, tendendo la mano per primi. Dunque, la parola della riconciliazione è l’atto, lo speech act attraverso cui, con una parola, parlando, con un termine che è una parola, si dà inizio alla riconciliazione, si offre la riconciliazione rivolgendosi all’altro. Ciò significa se non altro che, prima di questa parola, c’era la guerra e la sofferenza e il trauma, la ferita. Si dirà allora, secondo il buon senso, il più irrefutabile buon senso, che solo un vivente o una vivente viene ferito, può ricevere o sentire una ferita, anche se soffre di una ferita mortale. Una ferita che nel futuro porterà fatalmente alla morte. Dunque lesione, colpo, piaga, trauma, sfregio, taglio, sbucciatura, scalfittura, mutilazione, incisione, escissione, circoncisione; qualsiasi ferita immaginabile che colpisce un tessuto vivente lascia, almeno sul momento, una cicatrice. E anche se la ferita è una figura biologica per parlare di un male o di una sofferenza psicologica, morale o spirituale, come si dice, fantasmatica, ebbene il perdono e la riconciliazione hanno senso solo laddove la ferita ha lasciato o ha potuto lasciare un ricordo, una traccia, quindi una cicatrice da guarire o alleviare, da curare.



Parlare sarebbe cominciare a riconciliarsi. Anche se, e questo Hegel non lo ignorava, anche se si sta dichiarando l’odio o la guerra, se ci si sta ingiuriando, insultando o ferendo, dal momento che si parla, che ci si parla, è in atto un processo di riconciliazione. Allora come ricominciare e parlare a tutti insieme, singolarmente e universalmente? Oltretutto, la domanda “come rivolgersi a più persone?” a più di una singolarità, potrebbe disegnare la croce del perdono, la croce stessa del perdono. (...)


Jasmine è gramsciana

 

Usare Gramsci. Una prospettiva pedagogica.

"lasciateli annegare; noi comunque non li vogliamo"



 

Leggere Gramsci da pedagogisti, oggi. Questa la specifica angolatura da cui Massimo Baldacci richiamava l’attenzione degli studiosi, in particolare dei pedagogisti, sull’attualità del pensiero del comunista sardo sui temi formativi. Il volume Oltre la subalternità. Praxis e educazione in Gramsci aspira infatti a una «nuova lettura pedagogica del pensiero di Gramsci» seguendo l’interrogativo: cosa vuol dire pensare in modo “gramsciano”, le problematiche pedagogiche fondamentali della nostra epoca? Quale uso si può fare oggi della sua teoria educativa? Baldacci sostiene che la “pedagogia” di Gramsci non è isolabile dall’insieme dei Quaderni e dalla sua opera, ma ne costituisce «una prospettiva» interna[1]

        

 L'impiccagione di Omar al Muktar Soluk il 16 settembre 1931.

Proiettata nell’orizzonte della società intera e nella prospettiva di una formazione permanente, e come processo di natura duplice: l’educazione come antitesi, ovvero come lotta contro il senso comune dominante per la costruzione di una “cultura superiore” e una “nuova mentalità”. Quella che si è affacciata con Mario Draghi? Difficile riconoscere un debito con Gramsci, com’è inevitabile in una Bildung, in una Paidéia gesuitica fondata sul “discernimento”. Ricordiamo ancora l'incontenibile sorriso di Massimo Franco quando “la sardina” calabrese Jasmine Cristallo (entrambi in collegamento su "ottoemezzo") a gennaio del 2020 si definì "gramsciana". Era tanto che non si sentiva quell'aggettivo dal retrogusto dell'inattualità. Certo la laurea draghiana con Federico Caffè è un indizio bene auspicante.

Educazione e politica coincidono nell’ottica della «formazione di una nuova soggettività, capace di superare la mentalità subalterna. Educare in senso gramsciano, dunque, vuol dire essenzialmente innescare una lotta pedagogico-culturale che consenta di andare oltre la subalternità. La sfida pedagogica: uscire dalla “filosofia primitiva del senso comune”[2]. Oggi, forse non a caso, il sintagma più utilizzato nelle cronache parlamentari, nelle dichiarazioni degli esponenti politici di tutte le parti ma in particolare della reazione più becera, non è forse “buon senso”? Trattandosi il più delle volte di un escamotage conclusivo (di solito è prefissato da un “basterebbe un po’ di”), ma buono non lo è quasi mai. E certo non nel caso degli immemori votati all’ignoranza, al semplicismo, alla non curanza nei confronti del principio di non contraddizione. Così solo ieri si è passati dall’ apriamo tutto a chiudiamo tutto, dal no-vax al green pass, alla supposizione di una surrettizia dittatura sanitaria, al lasciapassare fascista e – infine - all’italica e ironica menefrego-card. Si auspicano sanzioni fino a 1000 euro; almeno per i dimentichi, per chi facilmente va “aru riscuordu”, il popolo bue che usa chiamare cornuto il ciuco.

«La mia opinione è che si dovrà venire ai campi di concentramento». Scrisse così, nel 1930, Emilio De Bono, ministro delle Colonie dell’Italia fascista, a Pietro Badoglio, governatore delle colonie libiche e già eroe della Grande guerra. L’espressione, raggelante, non incontrò sorpresa, né resistenza: né in Badoglio, né in Benito Mussolini. Per piegare la resistenza dei guerrieri senussiti guidati da Omar al-Mukhtàr, l’Italia ricorse a «una delle più grandi deportazioni della storia del colonialismo europeo». E le fotografie del campo di concentramento di El Biar restituiscono l’orrore delle condizioni in cui venivano tenuti i prigionieri: le malattie, le punizioni, le forche: cui «gli aguzzini italiani» costringevano ad assistere «i padri, i fratelli, gli amici e i parenti di ogni grado, compresi donne e bambini»[3].

Ironia volle che Jacques Derrida, il 15 luglio 1930, nascesse proprio a El-Biar. Luogo dove il filosofo di origine algerina – dopo un attentato - non poteva più tornare. Così Safaa Fathy venne delegata da Derrida a filmare, in sua assenza, i luoghi della sua infanzia. “Rappresentazione armata di una videocamera” attraverso la quale lei vede con gli occhi di lui, e viceversa. (Cfr. Tourner les mots, opera scritta da Derrida e Safaa Fathy a partire dal film D’ailleurs, Derrida, presentato in anteprima nazionale al teatro Rendano di Cosenza il 17 gennaio 2001).

“Continuano senza sosta gli sbarchi sull’isola italiana di Lampedusa. Nella giornata di venerdì 30 luglio, 65 migranti hanno raggiunto la costa, dopo la mezzanotte, a bordo di 5 diverse imbarcazioni. Ieri, giovedì 29 luglio, nell’arco di 24 ore, un totale 875 migranti è giunto sull’isola in seguito a 27 sbarchi consecutivi. L’ultimo, avvenuto nella tarda serata, ha riguardato 16 persone riuscite ad arrivare direttamente a Cala Pisana. A bloccare il gruppo, sequestrando il gommone di 5 metri, è stata la Guardia di finanza[4].

Troppo a lungo infatti, afferma Franco Farinelli su tutt’altro versante (che potremmo forse definire epistemologico), "si è creduto che la geografia fosse il sapere relativo a dove le cose fossero, senza accorgersi che in realtà, nell'indicare questo, la geografia decideva che cosa le cose erano"[5].

 A partire dalla mezzanotte, la motovedetta dei carabinieri ha intercettato e trasferito sul molo Favaloro 15 tunisini a bordo di un’imbarcazione di 6 metri e altri 9 a bordo di un barcone arrivato a circa un miglio dal porto. Alle 3, sempre i carabinieri hanno bloccato 20 subsahariani, fra cui 5 donne e 3 minori, a Cala Croce. L’imbarcazione, lunga 8 metri, è stata ritrovata e sequestrata. Alle 4, la motovedetta della Guardia di finanza ha recuperato e fatto sbarcare 13 uomini intercettati a poca distanza dalla baia di Cala Croce. Infine, un’ora dopo, la motovedetta della Capitaneria ha portato al molo Favarolo altri 8 tunisini.

Negli ultimi mesi, sono aumentati i tentativi di traversata verso l’Europa e, in particolare, verso l’Italia. Gli arrivi sulle coste italiane, uno dei principali punti di sbarco per i migranti in partenza dalla Libia, erano diminuiti negli ultimi anni, ma i numeri sono tornati a crescere nel 2021. Secondo i dati del Ministero dell’Interno italiano, aggiornati al 29 luglio, circa 27.834 migranti sono sbarcati quest’anno in Italia, a partire dal primo gennaio, un numero di gran lunga superiore ai 13.336 dello stesso periodo del 2020 e ai 3.664 dello stesso periodo del 2019. La nazionalità che più di frequente viene dichiarata al momento dello sbarco è quella tunisina (6.147 persone quest’anno), seguita da quella bengalese (4.176) e da quella egiziana (2.291).

Le partenze sono aumentate soprattutto dalla Libia. Quasi 15.000 rifugiati, richiedenti asilo e migranti sono stati intercettati nella prima metà di quest’anno, una cifra che, secondo i dati delle Nazioni Unite, supera il totale degli sbarchi di tutto il 2020. L’ONG Amnesty International ha affermato che, nei primi sei mesi del 2021, più di 7.000 persone intercettate in mare sono state riportate in Libia e rinchiuse nei centri di detenzione del Paese nordafricano[6].

Mentre scriviamo le agenzie battono il solito penultimatum con la stanca ripetizione dalla falsa coerenza dei “porti chiusi”.

 «Ho scritto a Draghi e gli ho detto che entro agosto il problema degli sbarchi va risolto». Matteo Salvini interviene alla festa della Lega di Cervia pochi minuti dopo che il sottosegretario all’Interno Nicola Molteni ha tracciato un quadro drammatico degli sbarchi degli ultimi mesi.  Segno che Salvini d’estate facilmente ricasca nel fantasma del Papeete, quello dei “pieni poteri”, e finisce con l’indirizzarsi a Luciana Lamorgese: «Se il ministro non è in grado di risolvere questo problema, ne prenda atto e ne tragga le conseguenze. Faccia qualcosa, blocchi questi arrivi». Fino alla minaccia estrema: «Sostenere un governo che accetti questi numeri di sbarchi, per noi della Lega sarebbe un problema».

Bloccare gli arrivi? Come? con quale algoritmo? Mettendo in mora l’attuale ministro? Cosa già tentata con La Morgese (ne storpiamo il cognome per rendere più evidente l’imago), così come - in passato su temi pensionistici - con La Fornero (inutile sottolinearne il sessismo volto a un tentativo fallace di criminalizzazione). Insomma, il re è nudo e il personaggio - che mai si è degnato di concertare una qualsiasi misura coi colleghi europei degli Interni – già lo conosciamo. Come ci ricorda l’ex eurodeputata Elly Schlein, la Lega è stata assente alle 22 riunioni per rinegoziare il regolamento di Dublino, ovvero l’insieme di quelle norme che determinano le questioni legate all’immigrazione. “Salvini ci spieghi perché sacrifica l’interesse nazionale sull’altare delle sue alleanze politiche con nazionalisti di estrema destra. O non gli interessa cambiare le norme ingiuste per il nostro Paese, oppure decide di non andare contro le decisioni del suo gruppo, con gli altri nazionalisti che non hanno alcuna intenzione che Dublino cambi”. Quando nel 2016 Marco Bentivogli, segretario generale della Fim, lo definì “il più grande assenteista di Bruxelles” Salvini lo portò a giudizio per diffamazione. Il tribunale di Milano archiviò il procedimento per un semplice fatto: definire Salvini “assenteista” non era diffamazione, ma la verità, considerando che aveva partecipato soltanto al 18% delle riunioni della Commissione sul commercio internazionale di cui faceva parte. Un conto sono l’afflato da unità nazionale, il pragmatismo e lo stile di un Draghi, altra cosa le ripetizioni dello stesso miope gioco retorico. Definitivamente sputtanato da Schlein e Bentivogli, riteniamo sia giunto il momento di una riflessione su l’effetto Draghi, che certo gronda autorevolezza ma che pure cela la novità di una politica della nazione. Vale a dire ciò che per Edgar Morin “non sono tagli di spesa, ma riforme dello Stato, della democrazia, della società, della civiltà, legate a riforme di vita”. (…) Una politica con una governance di concertazione tra l’azione dello Stato, le collettività pubbliche e gli strumenti di democrazia partecipativa.  Altro che sovranismo, si tratta di sviluppare in gran fretta legami e cooperazioni, assicurando l’autonomia alimentare e sanitaria, di salvare territori dalla desertificazione e favorire la vita delle comunità locali. In fondo sottoscrivendo Morin la formula di “economia di vita” di Jacques Attali.[7]


[1] Massimo Baldacci, Oltre la subalternità. Praxis e educazione in Gramsci, Carocci, Roma 2017

[2] Manuela Ausilio, Usare Gramsci. Una prospettiva pedagogica, International Gramsci Journal No. 10 (2nd Series /Seconda Serie) Summer /Estate 2019

[3] Cfr. Antonio Scurati, «M. L’uomo della provvidenza», Bompiani, 2020, e «M. Il figlio del secolo», Bompiani, 2018

[5] F. Farinelli, La crisi della ragione cartografica, Einaudi, 2009

[6] Chiara Gentili, in https://sicurezzainternazionale.luiss.it/2021/07/30/italia-immigrazione-sbarchi-senza-sosta-lampedusa/ (NdR: Alessandro Orsini è Direttore dell’Osservatorio sulla Sicurezza Internazionale della LUISS e del quotidiano Sicurezza Internazionale).

 [7] Edgar Morin (con la collaborazione di Sabah Abouessalam), Cambiamo strada, le 15 lezioni del coronavirus, Raffaello Cortina Editore, 2020, traduzione di Rosella Prezzo, (Éditions Denoël, 2020)

EXEMPLA TRAUNT

 Il governo Draghi può dare il buon esempio

eèmpio (ant. eèmploexèmpioessèmpioessèmploessèmproassèmploassèmpro, e anche aèmploaèmpro) s. m. [dal lat. exemplum, der. di eximĕre «prendere fuori», part. pass. exemptus]. Questo ti serva d’esempio per il futuroprendere esempio da qualcuno, imparare da lui, seguirlo in ciò ch’egli fa. Persona, o anche animale, oggetto naturale in genere, che fa da modello a un artista: Come pintor che con essempro pinga (Dante).






Secondo un noto proverbio, le parole volano, solo gli esempi trascinano. Agostino sperimenta la saggezza di questa massima.

“Feci in quei giorni visita a Simpliciano che Ambrogio amava come un padre. Gli raccontai i miei problemi. E quando accennai alla lettura che avevo fatto di alcuni libri platonici, tradotti da Mario Vittorino, si rallegrò. E  per esortarmi all'umiltà di Cristo mi raccontò i suoi ricordi di Vittorino. Egli fino alla vecchiaia aveva onorato e difeso gli dei, ed aveva ottenuto un grandissimo riconoscimento: una statua nel foro romano. Eppure non arrossì a tornare piccolo, convertendosi a Cristo e di sottoporre il collo al giogo dell'umiltà. A detta di Simpliciano, leggeva la S. Scrittura e studiava con la massima diligenza tutti i testi cristiani. Diceva spesso a Simpliciano, confidenzialmente, `devi sapere che sono ormai cristiano'. L'altro replicava: ‘Non lo crederò né ti considererò nel numero dei cristiani finché non ti avrò visto nella chiesa di Cristo'. Egli chiedeva sorridendo: `Son dunque le mura a fare i cristiani?'. In realtà temeva di spiacere ai suoi amici, superbi adoratori del demonio. Ma poi dalle avide letture attinse una ferma risoluzione e all'improvviso disse all'amico: Andiamo in chiesa, voglio diventare cristiano'. Quando venne il momento della professione di fede, alcuni, narrava l'amico, proposero a Vittorino di farla in forma privata, licenza che si usava accordare a chi faceva pensare che si sarebbe troppo emozionato per la vergogna. Ma Vittorino preferì professare la sua salvezza al cospetto della santa moltitudine. Così, quando salì a recitare la formula, tutti gli astanti scandirono fragorosamente, in segno di approvazione, il suo nome, poi tacquero sospesi per udirlo. Egli recitò la sua professione della vera fede con sicurezza straordinaria" (Conf. VIII, 2.4-5).

§

«Non puoi chiedere il Green pass agli italiani per andare in pizzeria e poi fai sbarcare chiunque»

(Lo statista)

Questa notte ho fatto un sogno

(Massimo a mo’ di introduzione)

Sono nato nel 1956 e dunque ho memoria degli sbarchi degli albanesi del 1991 (tra Bari e Brindisi alla fine erano 27.000), del curdi sbarcati a Riace nel 1998, di quelli più recenti sulla costa calabra, a Roccella, a Lampedusa, dei poveri cristi che Di Maio ha la faccia di riconsegnare ai lager libici. Di Libia, Lesbo e Borgo Mezzanone già sappiamo grazie ai magnifici reportage di Francesca Mannocchi. Altre storie le ho apprese grazie a Eric Salerno, giornalista e storico appassionato, un “rosso a Manhattan” (vale a dire un comunista nel posto sbagliato), già da qualche anno cittadino onorario di Castiglione Cosentino. Ma sono pure abbastanza vecchio da conoscere di Eric “Genocidio in Libia”, riedizione aggiornata di un saggio del 1979 con un’appendice sui campi di concentramento libici di oggi.

Sarebbe il caso di cominciare a ripensare ai migranti in una prospettiva diversa: umana, cristiana, ma non esente da una ratio economica prim'ancora che etica, di valorizzazione dei "vuoti a perdere".  Insomma cambiare di segno al paradigma, passare dai fantasmi e dalle miopie sovraniste e fascio-leghiste a una politica di accoglienza "conveniente per tutti". Per l'Italia e per l'Europa. Invece di pietire il co-interessamento europeo, decidersi a fare qualcosa per l’Europa e con l’Europa. Con l’effetto accessorio di mettere a tacere pregiudizi e ritrosie dei cosiddetti Paesi frugali nei confronti dell'Italia. Perché non pensare, in una prospettiva meridionalista che guarda con coraggio a un Mediterraneo in subbuglio, a un grande progetto di recupero (e rilancio) dello spopolamento e dei paesi abbandonati, vale a dire circa 1600 piccoli comuni, ossia il 42,1 % del totale dei comuni del nostro Paese: Piemonte con 539 comuni disagiati, i 370 della Campania, i 354 della Calabria e i 301 della Sicilia, per un bacino di 160.000 nuovi ospiti. Perché lasciarli gravitare solo su Lampedusa e sugli attracchi, più facilmente a portata di barca, della Sicilia o della costa calabra? Perché non programmarne l’ingresso come forza-lavoro, come operai, braccianti, tecnici, badanti, artigiani? Cosa stanno aspettando Mario Draghi, il ministro per il Sud e la coesione territoriale, quale migliore occasione del Recovery Fund? E' un capovolgimento che cova da anni negli studi antropologici di Vito Teti e di un team di urbanisti, sociologi, demografi dell'Università della Calabria, oltre che di un sedimento della cultura paesologica dell'intero Mezzogiorno.

I paesi censiti non sono tutti uguali. Scrive Vito Teti: “occorre distinguere tra: a. paesi abbandonati da lungo tempo, totalmente irrecuperabili, anche da un punto di vista urbanistico; b. paesi abbandonati ancora integri (almeno in parte) dove potrebbero tornare o arrivare degli abitanti; c. paesi in spopolamento e con pochi abitanti. d. paesi che soffrono una crisi demografica e di spopolamento dove però restano e resistono abitanti in un numero significativo”. È questione che andrebbe approfondita di corsa. Esiste nel governo qualcuno in grado di sfidare la stupidità imperante, l’agenda setting di un Salvini, senza farsi intimidire dai populisti del Movimento 5 Leghe? Qualcuno che s'incarichi di mettere intorno a un tavolo Vito Teti, Beppe Provenzano, Gianfranco Viesti, Tomaso Montanari, Tonino Perna, Fabrizio Barca e magari pure Tito Boeri, chiedendo loro di verificarne la fattibilità?