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lunedì 26 dicembre 2022

Logo e gift per il primo tesseramento

 Marcello Walter Bruno

acronimizzato: Emmevubì


L'acronimo (dal greco ἄκρον, àkron, "estremità" + ὄνομα, ònοma, "nome"), o inizialismo, è un nome formato con le lettere o le sillabe iniziali (o talvolta anche finali), o più genericamente con sequenze di una o più lettere delle singole parole o di determinate parole di una frase o di una denominazione, leggibili come se fossero un'unica parola.


























sabato 24 dicembre 2022

Tutti quegli uomini che un uomo intelligente e lucido sospetta di essere

 Dopo l'affettuoso e pepato commiato di Gianni Canova, critico cinematografico e rettore IULM, una stimata collega (non stiamo facendo dell'ironia) ci fa sapere che però "Marcello non ha mai voluto neanche tentare il concorso da ordinario. Era lui che non ne voleva sapere. Figurati che non caricava neanche le pubblicazioni sul sito del Miur".



 photo: Annarosa Macrì
(anche se Annarosa dice che non lo sa)



MWB con Gianfanco Donadio e Diego Mazzei



 “I DISTANTI”

Figure della presa di distanza.

 

Il poeta, l'artista, è da sempre un abitante della distanza. La storia della poesia un catalogo dei suoi luoghi: eccentrico, folle, fanciullino, dandy, snob, flaneur, dilettante.

Se la poesia riuscita è contraddistinta dall'assunzione di una distanza critica e che sappiamo triplice o forse quadrupla (come abbiamo visto poc'anzi, dalla lingua dei padri - nel senso di Bloom - dal poetese, dall'obbligo del grande stile e dei grandi temi ispiratori, dalle medietà e dalle mediocrità connesse), c'è pure - col dovuto rimbalzo - una distanza critica che s'incarna, modella i corpi, diventa gesto, s'inscena nel teatro del mondo, poi forse si stempera nei grandi numeri delle mode culturali. In ogni caso si tratta di esploratori di “territori stranieri interni”; espressione freudiana così mis-tradotta da Habermas, forse per riferirsi alla Unheimlickeit.

A sentire Ermanno Krumm (Il ritorno del Flåneur, Boringhieri, 1983) si abbraccia “una vasta porzione di testualità vagabonda che va da Montale a Zanzotto”. Per Frediano Sessi (‘Alfabeta’, n.67), è Cesare Ruffato, con Minusgrafie (1978) e Parola bambola (1983), il campione della “conflagrazione silenziosa della lingua”, del vagabondaggio tra significante e significato; ma noi gli preferiamo i meridionalissimi botti bonazziani.

Valentino Zeichen (forse non a caso emigrato da Fiume a Roma) - tra lo snob, il dandy e il flaneur - persegue invece una poesia che di distanze ne mette in gioco di molteplici. Come stile, a volte come spocchia, sempre come disincanto e neutralizzazione del pathos, come cinismo e ironia della frase, della punteggiatura e degli enjambements.

 

“(...)

A ogni inizio di stagione,

fuori della mitica caverna

sfilano le lunghe sagome

e le preferenze degli amanti

vanno alle collezioni autunno-inverno

che assottigliano le figure;

seviziate dagli stilisti, poiché

neanche nel mondo degli spiriti

vengono tollerati i grassi".

 

venerdì 2 dicembre 2022

MWB reload (liminari di una associazione culturale)



Come aprire questa porta 


  1. Redazione dello statuto e dell'atto costitutivo: la prima fase è la stesura dello statuto e dell'atto costitutivo dell'associazione. Gli associati fondatori stabiliscono in questi documenti gli scopi (specificando la finalità di svolgere e/o promuovere attività culturali), l'amministrazione, la gestione del patrimonio e tutte le regole generali sia riguardo il funzionamento dell'organizzazione sia riguardo diritti e doveri degli associati.
  2. Sottoscrizioni dei fondatori e costituzione: dopo la redazione bisognerà firmare atto costitutivo e statuto per completare la costituzione. Non sarà necessario che questo avvenga davanti a un notaio. La sottoscrizione di tutti i fondatori è sufficiente per dar vita all'associazione e per procedere con le operazioni successive.
  3. Registrazione e codice fiscale: il presidente dell'associazione dovrà chiedere l'attribuzione del codice fiscale e la registrazione dell'associazione all'Agenzia delle Entrate per poter compiere determinate operazioni (ad esempio l'apertura di un conto corrente o la firma di contratti) e accedere alle agevolazioni fiscali di settore. Questi passaggi non sono strettamente obbligatori ma scegliendo di non effettuarli l'ente sarà molto limitato nelle sue attività e rimarrà una sorta di "accordo privato" tra gli associati.
  4. Richiesta della partita IVA: è necessaria l'apertura della partita IVA se l'associazione effettua attività commerciale (ad esempio la vendita di beni o servizi) in maniera continuativa, vale a dire avvalendosi di un'organizzazione stabile di mezzi e persone. Questo tipo di attività dovrà essere sempre ausiliaria e mai prevalente rispetto alle attività istituzionali dell'ente. Se l'attività commerciale è occasionale non è necessario aprire la partita IVA.

"Quel che so di Stanley Kubrick l'ho imparato da te". Gianni Canova (rettore IULM)


 

 

sabato 8 ottobre 2022

Goccioline, lacrime, droplets



Paris Zenith 2019 11 fév
(consiglio di lasciar scorrere il video)




sembra avvalorare la teoria secondo la quale dietro Banksy 
possa nascondersi lo stesso frontman dei Massive Attack, 
oppure un gruppo di street artists distribuiti in tutto il mondo 
e coordinati dalla band.




ohi fra' mìntati 'a mascherina!


giovedì 29 settembre 2022

Perché Putin deve perdere la guerra in Ucraina

 (Corriere della Sera 22 giugno 2022)

di Jonathan Littell *

 

Putin è un uomo che nel ventunesimo secolo ha scatenato una guerra del ventesimo secolo per raggiungere obiettivi del secolo diciannovesimo.

 

Per il presidente russo la menzogna è uno strumento di lavoro, pensare di convincerlo a sedersi al tavolo dei negoziati in buona fede è ridicolo.

 


Da qualche tempo si sente ripetere da più parti un ritornello pernicioso: gli ucraini stanno esagerando, la NATO rischia grosso, pensiamo all’inflazione piuttosto, bisogna tener conto di Putin. La formulazione più esplicita viene dalla bocca di Henry Kissinger, il quale il mese scorso a Davos ha affermato che l’Ucraina deve accettare di cedere parte del suo territorio, se non si vuole rischiare « una nuova guerra (della NATO) contro la Russia».

In Germania, dove il governo di Olaf Scholz trascina i piedi nella consegna delle armi promesse all’Ucraina, una parte della classe politica sembra convinta che la soluzione alla dipendenza energetica del paese nei confronti della Russia non sia quella di sottrarvisi, una volta per tutte e per quanto dolorosamente, bensì di chiudere gli occhi e tornare pian pianino a soddisfare le proprie rovinose comodità. Emmanuel Macron, da parte sua, si è messo alla guida di questa fazione: « Non bisogna umiliare la Russia, » ha ribadito di recente, prima di prendere il treno per Kyiv. Che tragico errore! E quale segno di debolezza, e di mancanza di visione strategica, che Vladimir Putin non esiterà un solo istante a sfruttare con tutti i mezzi a disposizione. Secondo quanto dichiarava pochi giorni fa un miliardario russo, vicino al Cremlino, alla giornalista britannica Catherine Belton, Putin « è convinto che ben presto l’Occidente si stancherà… e che, nel lungo periodo, la vittoria sarà sua».

Per accelerare la nostra capitolazione, Putin non esita a utilizzare tutti i mezzi sottomano: massima pressione sulle forniture di gas e petrolio, attraverso tagli abilmente orchestrati, destabilizzazione dei Balcani, e ricatto sulla penuria di grano che ben presto sfocerà in una catastrofe umanitaria in Africa, con il rischio di una nuova ondata migratoria. Per non parlare, ovviamente, dello spauracchio nucleare, che è sempre pronto ad agitare, quasi fosse realmente disposto a trascinare il mondo intero, Russia compresa, verso l’annientamento, quando sono in gioco le sue ambizioni e la sua sopravvivenza personale.

Illusioni e bugie

Una volta svanita la sorpresa iniziale provocata dalla reazione rapida e coordinata dell’Occidente davanti all’invasione dell’Ucraina, oggi Putin punta nuovamente sui tempi lunghi, sulle divisioni tra i Paesi europei, ma soprattutto sulla nostra debolezza e sulla nostra totale incomprensione, quanto meno in Europa occidentale, quando si tratta di penetrare l’immaginario imperiale russo. Per Putin, come per il suo ministro Lavrov, la menzogna è al cuore stesso della sua formazione e rappresenta uno strumento naturale di lavoro. Il dialogo non serve ad altro che a prender tempo per far avanzare le sue pedine, prima di tornare alla forza bruta al momento opportuno. Un negoziato o un accordo – come quello di Minsk del 2015, che doveva metter fine al conflitto nel Donbass – altro non è che uno stratagemma per congelare una conquista, in attesa di un nuovo spiraglio opportuno per passare a nuove conquiste. E’ così che funziona. Soltanto immaginare, come fa Kissinger, di poter tornare allo status quo anteriore al conflitto è una pura e semplice aberrazione. Pensare che si possa convincere Putin a sedersi al tavolo dei negoziati in buona fede, e che sia disposto a rispettare (una volta tanto!) i termini degli accordi, è un’ipotesi del tutto ridicola. Se non ci fossimo mostrati così impotenti, così intimoriti, così ciechi, se avessimo riarmato l’Ucraina sin dal 2015, oppure inviato truppe NATO sul suo territorio, anche solo a titolo di consiglieri militari, mai e poi mai Putin – che capisce una sola legge, quella del più forte – si sarebbe arrischiato in questa guerra. Se gli si lascerà cogliere il minimo vantaggio dal conflitto in corso, non faremo altro che stabilire i presupposti per il prossimo.

 


La vergogna europea

Accogliamo con soddisfazione il ripensamento di Macron e di Scholz, che hanno finalmente capito di non poter più ostacolare la candidatura ucraina all’Unione europea. Nel frattempo, resta il fatto che le loro illusioni e vane speranze nei confronti di Putin sono dure a morire. Da decenni ormai una parte dell’Europa, a cominciare dalla Germania, ha affidato la sua sicurezza energetica a Mosca, beatamente ignorando gli avvertimenti degli scienziati sul clima, e respingendo ogni suggerimento di lasciarsi alle spalle i combustibili fossili. Quanto tempo sprecato, tutto a vantaggio della Russia. Dall’inizio della guerra, la Russia ha incassato 93 miliardi di euro per le esportazioni di gas e petrolio, erogate soprattutto all’Unione europea. La cifra equivale a due volte e mezzo i 37 miliardi di euro che gli Stati Uniti hanno promesso all’Ucraina. E adesso ci strappiamo i capelli perché i prezzi alla pompa superano i due euro al litro e ci diamo da fare per trovare vie di scampo. È una vergogna, è uno scandalo. Anche in Ucraina la benzina costa caro e le code davanti alle stazioni di rifornimento sono diventate interminabili. Ma nessuno si lamenta. Quello che chiedono gli ucraini non è combustibile a basso prezzo, bensì armi e munizioni per respingere gli invasori, liberare le loro città e riprendersi i loro territori. E hanno ragione. Con l’invasione dell’Ucraina, Putin ha rovesciato lo scacchiere dell’ordine globale stabilito nel 1945, nel secondo dopoguerra: è illusorio sperare di riattaccare nuovamente i cocci. Davanti al mondo, Putin e i suoi complici ringhiano senza tregua, è il loro normale modus operandi, ma tra di loro studiano attentamente i rapporti di forza per trarne freddamente le conseguenze.

Quando gli ucraini, grazie alla loro resistenza accanita, hanno bloccato l’offensiva russa su Kyiv, Putin ha ritirato le truppe, rivelando al mondo tutto l’orrore inflitto dal suo esercito «di liberazione» sui civili di Bucha, Irpin, Motyzhyn e tante altre cittadine. Quando Mykolaiv si è sollevata per fermare l’assalto venuto dalla Crimea in direzione di Odessa, Putin è stato costretto a rinunciare, per il momento, al suo obiettivo di impadronirsi del celebre porto sul Mar Nero. E adesso, finalmente consapevole della debolezza del suo esercito mal addestrato e roso dalla corruzione, davanti alle forze ucraine super motivate ed equipaggiate dall’Occidente, ecco che concentra tutti suoi sforzi sul Donbass, ricorrendo all’aviazione e all’artiglieria pesante per radere al suolo tutte le città, una dopo l’altra: il solo modo che gli resta per fare la guerra. Ma anche qui dovrà essere fermato, definitivamente, e respinto. La promessa americana e britannica di fornire lanciamissili a lunga gittata per riequilibrare i rapporti di forza rappresenta il primo passo nella buona direzione. Ma occorre fare molto di più. Putin è un uomo che nel ventunesimo secolo ha scatenato una guerra del ventesimo secolo per raggiungere obiettivi del secolo diciannovesimo. Per lui, che oggi si paragona a Pietro il Grande, l’annessione completa dell’Ucraina è una questione esistenziale che non ha nulla a che vedere con le sue accuse deliranti contro la NATO. Per lui, l’Ucraina non deve più esistere, punto. E non ci sarà nessuna concessione, nessuna apertura diplomatica, nessun compromesso «ragionevole», da parte nostra, a impedirgli di raggiungere i suoi obiettivi, o a salvaguardare l’integrità territoriale, politica ed economica dell’Ucraina, o del suo avvenire europeo. Chiedere agli ucraini di deporre le armi e di negoziare un Minsk 3, 4 o 5, significa preparare il terreno a una nuova invasione dell’Ucraina tra qualche anno, concedendo a Putin il tempo necessario per riorganizzare il suo esercito e stoccare nuovamente uomini, armi e munizioni. E se muore nel frattempo, ma il regime gli sopravvive, il suo successore seguirà le sue orme.

 

Il 9 maggio a Strasburgo, Emmanuel Macron, ipotizzando eventuali negoziati con la Russia, ha ricordato il trattato di Versailles che nel 1918, con l’umiliazione della Germania, «Purtoppo aveva funestato la via della pace.» Fu certamente vero nei confronti della Repubblica di Weimar, che rappresentò un coraggioso tentativo democratico. Però Macron, a quanto pare, non ha capito fino in fondo il momento storico che stiamo vivendo adesso. Se c’è stato un 1918 per Mosca, si è trattato del 1991. In seguito, come in Germania dopo il fallimento di Weimar negli anni Trenta, il potere fascista e revanscista, e per di più profondamente corrotto, si è insediato definitivamente in Russia, schiacciando la società civile e le sue forze vitali, appropriandosi dell’intera economia del paese a suo esclusivo beneficio, e sfidando il mondo democratico e l’ordinamento sul quale è fondata la nostra pace e la nostra sicurezza collettiva. Oggi non è più il 1918, bensì il 1939. E come per il Terzo Reich di Hitler, il cammino verso la pace prima o poi esigerà il rovesciamento totale del regime di Putin, che non corrisponde affatto alla Russia e al suo popolo, a dispetto di quel che ne pensi « l’Occidente collettivo ». Solo una Russia libera, democratica e governata dai suoi cittadini, non da una cricca mafiosa inebriata di ideali messianici, potrà rientrare nel consesso delle nazioni e diventare a pieno titolo un membro della comunità internazionale, come sono riusciti a fare, dopo il 1945, Germania e Giappone.

 

La sconfitta necessaria

Per i polacchi, i paesi baltici e i paesi dell’Europa centrale, questo concetto è talmente evidente che non perdono occasione per ribadirlo con tutte le loro forze. Gli americani l’hanno capito, finalmente, e operano in questo senso in accordo con i britannici. Persino i finlandesi e gli svedesi hanno abbandonato, dalla sera alla mattina, 80 anni di neutralità per cercar rifugio sotto l’ombrello della NATO, la loro unica garanzia davanti alle mire folli del regime russo. In Europa occidentale, invece, i nostri governanti, da sempre prigionieri delle loro ideologie, sprofondati nella pigrizia intellettuale e nella fiacchezza morale indotta da una pace troppo lunga, sembrano perennemente tentati dal compromesso. Il compromesso è spesso necessario, ma in questa situazione sarebbe una catastrofe per il sogno europeo e altro non farebbe che attizzare ancora di più le ambizioni di Putin. Solo la sconfitta militare completa delle forze russe in Ucraina potrà restituire una parvenza di sicurezza al continente. E solo sulla base di una sconfitta della Russia si potranno intavolare trattative e siglare accordi che avranno una qualche possibilità di rivelarsi duraturi. Senza una vittoria chiara e netta dell’Ucraina, tutta la diplomazia non produrrà altro che chiacchiere inutili, o la capitolazione. « Non bisogna umiliare la Russia. » Da vent’anni a questa parte, più si fanno acrobazie per accomodare la Russia, o quanto meno per gestire i rapporti con il paese, più Putin accusa l’Occidente di volerlo umiliare, proprio lui, che sa maneggiare l’umiliazione dei suoi interlocutori come una scienza esatta. Che si sia disposti a prestarsi al suo gioco meschino è davvero sorprendente. In realtà, Putin si umilia da solo, con la sua ambizione di sedersi tra i grandi della terra, senza rispettarne però le regole più elementari; disprezzando e violando i diritti dei popoli quando ne va del suo tornaconto, come si è visto in Cecenia, in Georgia, in Siria, e oggi in Ucraina; e scatenando una guerra con un esercito patetico, inetto, arcaico, e per di più depredato e affamato dai suoi generali. Se veramente ce l’ha con noi per tutto questo, se ce l’ha con noi a morte, non siamo affatto obbligati a presentargli le scuse: abbiamo invece il dovere di infliggergli una buona lezione e rispedirlo al suo posto, il posto che si è scelto di sua propria volontà.

 

 

 

* Jonathan Littell, scrittore statunitense di origine ebraica naturalizzato francese 

 

 

venerdì 2 settembre 2022

"o Marcello o Walter o Bruno"

 (messaggio augurale di MWB al dott. Mastrascusa)

"Il genetliaco ti sia fausto!"

(risposta di Luciano Mastrascusa)

"o Marcello o Walter o Bruno"


§


Infatti se ne sono andati tutti e tre in un colpo solo. 

(Quanto fossero fausti si è capito) 


Lacan, per sfottere Comunione E Liberazione (che era il riferimento culturale del suo traduttore Giacomo B. Contri), chiedeva ironicamente: "sicuri di quella "e"? Non è che sarà "Comunione O Liberazione"?  Morale della favola: il tripode, la trinità, non gli ha portato bene. Meglio sarebbe stato un Marcello o Walter o Bruno. Oggi almeno avremmo potuto cazzeggiare con uno dei tre.

(il postulatore per il candidato Mastrascusa)

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La Passe


(...) Jacques Lacan ha posto la questione del termine dell’analisi e della formazione degli analisti come centrale nella sua elaborazione, considerandola come la questione essenziale per l’esistenza del discorso analitico. Rifiutando ogni soluzione burocratica, che implicherebbe poter sapere in anticipo che cosa sia un analista attraverso una serie di qualità, caratteristiche e attributi che ne garantirebbero la qualifica, ha scelto di percorrere un’altra via.

Nel 1967 ha proposto alla sua Scuola la procedura della passe, procedura che è direttamente in relazione con il suo noto enunciato: “Lo psicoanalista si autorizza soltanto da sé”. Se questo enunciato indica che la qualifica di psicoanalista non si dà per cooptazione, tuttavia non indica affatto che chiunque possa dirsi analista a proprio piacimento. Occorre infatti che dell’analista ci sia, affinché si dia dell’autorizzarsi. (...) La logica che Lacan propone con la sua passe è dunque la logica dell’atto analitico, di cui la passe stessa è paradigma. Come dice Éric Laurent: “Un analista è prima di tutto un soggetto che sostiene un performativo. È quello che innanzitutto ha dichiarato ‘io ho terminato la mia analisi’, frase assai inverosimile da sostenere. È sicuro? È per questo che una volta che ciò viene detto, una volta che viene proferito, occorre sostenere questo performativo davanti a qualcun altro che ci è passato”.

Il passant incontrerà dunque due passeur, indicati o estratti a sorte da una lista di analizzanti, scelti a partire dal fatto di essere essi stessi in un momento di passe nella loro analisi, che ne ascolteranno la testimonianza. Un cartello della passe incontrerà successivamente i due passeur, che trasmetteranno la testimonianza che hanno ascoltato. Sarà il cartello della passe, grazie alla testimonianza indiretta che avrà ricevuto, a valutare se in quello che ha inteso ha potuto trasmettersi il termine dell’analisi e del desiderio dell’analista. In caso affermativo, il passant riceve la nomina di AE (Analyste de l’École – Analista della Scuola), nomina che ha la durata di tre anni, durante i quali l’AE avrà la funzione di trasmettere alla Scuola e anche al di là di essa, un insegnamento che, partendo dalla singolarità della propria esperienza, illumini e reinventi i punti cruciali della psicoanalisi.
E' dunque la logica dell’atto analitico che conduce il dottor Mastrascusa a obiettare a MWB la seguente considerazione: 
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Monsieur le Professeur Rovella,

con la presente sono a segnalarle un testo "remarquable" di Monsieur le Docteur Mastrascusa, che sembra cifrare perfettamente una teoria del destino agìta dal nostro amico MWB, di fatto l' omen (secondo Szondi), oltre che coerente con la nostra proposta bartezaguiennes e prim'ancora lacaniana. 

                                (messaggio augurale di MWB al dott. Mastrascusa)

"Il genetliaco ti sia fausto!"

(risposta di Luciano Mastrascusa)

"Fausto un accidenti o Marcello o Walter o Bruno"

Il y est question de la production possible à la fin d’une analyse d’« un fonctionnaire du discours analytique, qui n’est pas pour autant indigne de la passe, où il témoignerait de ses premiers pas dans la fonction?». Je l’interprète ainsi : le fonctionnaire est celui qui met en fonction, qui fait fonctionner le discours analytique.

Lacan écrit : « La psychanalyse peut accompagner le patient jusqu’à la limite extatique du “tu es cela”, où se révèle le chiffre de sa destinée mortelle, mais il n’est pas en notre seul pouvoir de praticien de l’amener à ce moment où commence le véritable voyage?[5] Elle existe à être dite aux passeurs. Deux éléments la constituent donc : le passant et les passeurs. Ils sont la passe. Mais pas de la même façon : l’un la franchit, et pour la franchir il lui faut celui qui peut témoigner qu’il l’a franchie. 

Qu’il est « affranchi ». C’est un événement exceptionnel, un lien d’humain à humain, un lien social inouï (inaudito).

Si la passe est hors cure, pour autant elle n’est pas sans la cure. Elle lui est supplémentaire. Elle répond au fait que la psychanalyse n’est pas transmissible selon les modes habituels. Les examens de passage pour consacrer l’analyste professionnel de certaines associations évacuent la découverte de ce désir inédit, ce « pari fou » à partir duquel un analysant s’autorise à occuper la place de l’analyste pour d’autres. Il ne s’agit pas de désirer être analyste dans la visée d’une assise professionnelle au terme d’une longue analyse, mais d’un désir particulier. « Il n’y a d’analyste qu’à ce que ce désir lui vienne, soit que déjà par là il soit le rebut de ladite [humanité]?[6]

Quelque chose qui est interne même à la structure du discours empêche que la vérité puisse se dire toute : c’est le réel, point d’indicible et d’irreprésentable que le signifiant ne peut recouvrir complètement. C’est la rencontre de ce point, de ce trou, au-delà du mi-dire, qui fait de l’analysant un rebut, quand il se met en place d’analyste. « S’il n’en est pas porté à l’enthousiasme, poursuit Lacan dans la “Note italienne”, il peut bien y avoir eu analyse, mais d’analyste point?[7].

C’est la marque de ce rebut que ses « congénères » doivent trouver, et que la passe illustre : « Assez, dit Lacan, pour que les passeurs s’y déshonorent à laisser la chose incertaine, faute de quoi le cas tombe sous le coup d’une déclinaison polie de sa candidature?[8]

Ce qui est déshonorant pour un passeur, c’est de s’en tenir au savoir acquis, de la théorie, en évitant de se prêter à l’invention de savoir que risque le passant, et qui le concerne tout autant. Il se met alors en position de fonctionnaire du savoir, dans une simple fonction d’enregistrement, de psychanalyste, de contrôleur ou d’universitaire, et décline l’expérience du passant comme un cas.


[9] (À propos du terme de fonctionnaire, il y a encore une ambiguïté dans la « Note sur les passeurs ». 

Il y est question de la production possible à la fin d’une analyse d’« un fonctionnaire du discours analytique, qui n’est pas pour autant indigne de la passe, où il témoignerait de ses premiers pas dans la fonction?». Je l’interprète ainsi : le fonctionnaire est celui qui met en fonction, qui fait fonctionner le discours analytique. Mais pour être analyste de l’École, il doit témoigner de ce qui lui permet de faire fonctionner le discours analytique.)

[5]

Jacques Lacan, « Le stade du miroir comme formateur de la…. »

[6]

Jacques Lacan, « Note italienne », dans Autres écrits, op.…. » 

[7]

Ibid., p. 309.. »

[8]

Ibid.. »

[9]

Ibid., cf. notes 2 et 3. 

17 Jacques Lacan. La famille. Encyclopédie Française, tome 8,40,3-16,1938.

18 Sigmund Freud (1915). Pulsions et destins des pulsions. In Métapsychologie. Paris, Gallimard Idées,1968, pp. 18-20.

19 Jacques Schotte. Notes d'un séminaire inédit, vers 1980.

La mise en rapport des vecteurs szondiens et des fantasmes originaires permet de les considérer, d'un point de vue topique, comme les lieux ou les scènes d'une problématique, d'un traumatisme ou d'un complexe 17, d'une angoisse, du primat d'un déterminant pulsionnel 18, d'un désir 19 et d'un destin pulsionnels 20 dotés chacun d'une relative spécificité:


Vecteurs C S P Sch

Quand il produit son système des pulsions, SZONDI en distingue quatre, qu'il juge fondamentales.

Ce sont:

la pulsion du Contact (C)

la pulsion Sexuelle (S)

la pulsion des affects,appelée Paroxysmale (P)

la pulsion du moi (Sch), Sch correspondant ici aux trois premières lettres de schizophrénie.


Pour conclure 

Au terme de cette étude, s'il fallait schématiser nos résultats de manière un peu caricaturale,mais la caricature n'est pas simplificatrice, nous dirions que:

• les sujets décidés, surtout les filles, apparaissent comme bien adaptés, peut-être hyperadaptés, guidés par un idéal principalement éthico-moral qui en font des sujets plutôt conformes sinon conformistes, attachés à leur milieu (familial) et aux valeurs de ce milieu. Sauf exceptions (-Benoît 10 et, dans une moindre mesure Alain 7), la structure de la personnalité est névrotico-normale, axée sur le refoulement entendu dans son sens normatif:mise à l'écart d'une vie pulsionnelle-fantasmatique trop envahissante et, corrélativement, contre-investissement de la réalité externe concrète.

Les filles sont incontestablement mieux structurées que les garçons,surtout dans le sens où leur identification sexuelle pose moins de problème et, l'une étant sans doute liée à l'autre,leur tendance à la régression prégénitale est plus modérée.

• les sujets hésitants sont ceux qui "se font un problème" de tout,ce qui fait d'eux des sujets qui, selon la formule consacrée de FREUD, ont tendance à "régresser de l'acte à la pensée", ce qui est une caractéristque "obsessionnelle" typique.

Les hésitants s'opposent en tout cas aux décidés sur ce point précis: il n'y a pas chez eux ce contre-investissement de la réalité" qui est corrélatif d'un refoulement adaptatif.Ce sont plutôt des "penseurs-rêveurs" chez qui, pour une moitié d'entre eux, joue à plein le mécanisme de l'isolation au sens d'une dissociation ou d'un clivage entre la question du but (h,e,p,m) et des moyens ou des objets (s,hy,k,d) qui permettent d'atteindre la satisfaction-but. Ce qui les caractérise par ailleurs et davantage que les autres groupes,c'est que tous ces sujets hésitants sont confrontés à la question de l'inversion sexuelle sans qu'on puisse dire si celle-ci est plutôt constitutionnelle,innée,ou si elle correspond à un aménagement névrotique classiquement rencontré chez les sujets dont l'organisation psychique globale s'oriente de manière prévalente dans le sens obsessionnel:identification virile-active des filles, identification féminine des garçons.

Ce qui est sûr, c'est que les filles développent des défenses névrotiques contre leurs tendances viriles, ce qui explique certainement pour une grande part l'importance que prend chez elles la conflictualité intrapsychique élaborée sur le mode de la relance auto-réflexive permanente, tandis que les garçons paraissent beaucoup plus désorientés face au problème que leur pose leur inversion avec comme conséquence une fragilité certaine qui les mène au bord de la dépersonnalisation.



 Charles Baudelaire: "La caricature est double: le dessin et l'idée; le dessin violent, l'idée mordante et voilée; complication d'éléments pénibles pour un esprit naïf, accoutumé à comprendre d'intuition simple des choses simples, comme l'esprit simple qu'il est lui-même".


Dal campo freudiano a quello bartezaguiennes


C’è un celebre testo di Lacan, dal titolo praticamente intraducibile, L’Étourdit, che inizia con una frase, anch’essa celebre: «Che si dica resta dimenticato dietro ciò che si dice in ciò che si intende». Qui, Lacan distingue accuratamente i suoi tre registri: c’è “ciò che si dice”, ossia il significante, e “ciò che si intende”, il significato. E poi c’è un “che si dica”, un registro del dire che si distingue sia dal simbolico che dall’immaginario, ed è il registro del reale. Che l’uomo sia un  animale che ha la parola, non significa semplicemente che sia un animale che comunica, perché questo lo fanno tanti altri animali. Il linguaggio non è un attributo, ma fa parte dell’essere dell’uomo, un essere che si realizza, che si fa reale parlando. Il linguaggio è ciò che provoca un’altra soddisfazione nel parlante, altra rispetto a quella del bisogno, ed è con questa soddisfazione che l’analisi deve lavorare, facendola emergere, estraendola, lavorandola, moderandola, limitandola. 

È per questo che Lacan parlerà di linguisteria, più che di linguistica, nell’ultima parte del suo insegnamento: una linguistica sui generis, al cui interno spicca la questione isterica, ossia quella squisitamente psicoanalitica.

(Fulvio Marone) 

 


Au cœur de la passe, les passeurs - Laure Thibaudeau

Psychanalyse 2016/2 (n° 36)


§


Dal campo freudiano a quello bartezzaghiano 

 http://bugiadri.blogspot.com/2019/05/tanto-salvini-non-sa-fare-le-parole.html


Lacan ha cercato di dare un’altra direzione all’uso del linguaggio in psicoanalisi. Faccia parole crociate: non è solo il suggerimento che dobbiamo dare a quei pazienti che vengono a cercare da noi qualche rimedio per gli inevitabili disturbi della memoria dell’età, ma è anche il consiglio al giovane psicoanalista che Lacan pone come epigrafe della seconda parte di “Funzione e campo”. Le parole crociate, infatti, esemplificano perfettamente quella letteralità dell’Altra scena che Lacan rendeva con la sua celebre affermazione “l’inconscio è strutturato come un linguaggio”. Lacan, è noto, ha utilizzato lo strutturalismo di de Saussure, di Lévi-Strauss e di Jakobson per rileggere come saggi di linguistica alcuni testi che hanno fondato la psicoanalisi : L’interpretazione dei sogni, La psicopatologia della vita quotidiana, Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio. La distinzione tra significante e significato, la traduzione delle caratteristiche particolari del sistema inconscio in termini di metafora e metonimia, il concetto stesso di struttura hanno permesso di fondare su basi scientifiche più ampie la teoria psicoanalitica.

Fulvio Marone

VIII Convegno Nazionale FPL, Milano 1-2 giugno 2013

in  http://www.psychomedia.it/isap/marone2.htm


BMW e il doppio Baudrillard

 



La Star viene creata il 21 giugno 1948 da Regolo Fossati. 

Il nome dell’azienda nasce dall’acronimo di Stabilimenti Alimentari Riuniti e corrisponde, contemporaneamente, alla traduzione inglese del nome della moglie di Regolo Fossati, Stella (Piluso, 1995)

Star - Dado Doppio Brodo con Aldo Fabrizi, Regia di Vito Molinari, Sceneggiatura di Marcello Marchesi.

Con MWB - sulla scia dei calembour di Lacan - Baudrillard all'Unical 

di buon grado per due giorni si trasformò pure in un dado, quello del doppio brodo Star.

L’idea baudrillardiana di simulacro e di simulazione, di iperrealtà collimava con quella etnologica di bilocazione di una veggente molto famosa e venerata qui in Calabria (Natuzza Evolo) e con gli avvistamenti del Prof. Piperno in più città contemporaneamente. 

Da qui l'idea del "doppio", il doppio Baudrillard.


Nella foto di Annarosa Macrì 
Marcello alla lavagna in versione Doppelgänger

martedì 30 agosto 2022

Marcello Walter Bruno: Addenda et corrigenda

 MWB su fatamorganaweb.it/marcello-walter-bruno


"Le generazioni peggiorano sempre più. Verrà un tempo in cui saranno talmente maligne da adorare il potere; il potere equivarrà a diritto per loro, e sparirà il rispetto per la buona volontà. Infine, quando l'uomo non sarà più capace di indignarsi per le ingiustizie o di vergognarsi in presenza della meschinità, Zeus lo distruggerà. Eppure, persino allora, ci sarebbe una speranza, se soltanto la gente comune insorgesse e rovesciasse i tiranni che la opprimono".
Mito Greco sull'Età del Ferro.

"Da un lato, l'uomo è affine a diverse specie animali, poiché combatte i propri simili. Ma dall'altro, egli, fra le migliaia di specie in lotta, è l'unico che combatta per distruggere... La specie umana è l'unica che pratichi l'omicidio di massa, pesce fuor d'acqua all'interno della propria società".
Nikolaas Tinbergen

In esergo a Erich Fromm, Anatomia della distruttività umana, traduzione di Silvia Stefani, A. Mondadori, 1978



In media res 

Caterina Martino

Introduzione al fascicolo n. 20 di fatamorganaweb 

dedicato a Marcello Walter Bruno


Addenda 

Massimo Celani


tra le mostre fotografiche di L'Impronta (di Antonio Armentano, curate da MWB), si segnalano "Riscatti" (2013) e puoi giurarci che il senso prevalente sarà "ri-scatti" (foto ri-scattate - in tutti i sensi - da altri fotografi) e "Posti italiani" (2018) che mette in gioco l'ambiguità tra "posto" inteso come luogo e come "post", elemento basico della scrittura telematica (oltre ovviamente al sintagma più distribuito nel nostro paese). "Titolista" suggerisce giustamente Caterina Martino, segnalando una attitudine di confine tra il giornalismo e il copywriting pubblicitario (la mente va in tal caso ai gioielli de il Manifesto e (a volte) de il Foglio: "Selfielosophy", "Il metacinema è una cosa deleuziosa", "Il ground zero della scrittura", "Apocalypse news", "Insegnocinema", "I predatori dell’aura perduta", sono solo alcuni degli ironici e acuti titoli dei suoi saggi. Sceneggiatore televisivo: autore di soggetti come Bronzer. Il giorno che rapirono i bronzi di Riace (RAI, 1982). E altro ancora. (...) 

Insomma, l'aggettivo deliziosa diventa "deleuziosa", l'arca diventa aura quand'è perduta, il grado zero scivola nel ground dopo le torri gemelle. E poi, in contesti pubblicitari (ne gioirà Beniamino Morrone, dirigente Carical) i compagni di banco apriranno a quelli di bancomat. Con la stessa nonchalance con la quale un programma tv di Rai3 Calabria potrà intitolarsi "la mia ragazza fa il saldatore". Salta agli occhi però che nella lista di titoli raccolta da Caterina c'è qualcosa che non funziona, per logica e stile. Ed è quel "Bronzer. Il giorno che rapirono i due di Riace". Dopo quello scivolamento da grado a ground, da now a news (intendendo l'apocalisse), dopo quel "deleuzioso" e quel sottile "insegnocinema" che fa il verso alla storica rivista di Mario Calderale "segnocinema", quel bronzer resta appeso e deludente, privo di vigore e di rigore. Questo perchè non è di MWB ma di chi ora sta scrivendo per emendare. Infatti non fu propriamente uno storyboard ma una specie di animatic (soggetto, sceneggiatura, storyboard, etc.: parole ormai affermate tra le forme di progettazione e di ipotetigrafia cinematografica) che BMW mi appaltò con la complicità del capostruttura RAI dott. Minasi. Insomma, tra tante delicatessen bruniane, spicca, stona, una celanata. Della quale mi scuso.

 


Quasi tutti metaplasmi, ché gli erano più congeniali dei metalogismi: allitterazioni, assonanze, paranomàsie, annominazioni, poliptòti, insomma calembour. Inutile dire che soprattutto in questo settore, quello della brevitas, MWB mi ha insegnato tutto, ovviamente "facendo", scrivendo, poponendo elaborazioni possibili in quei luoghi virtuali che l'advertising chiama brainstorming: "verba docent (o movent), exempla trahunt" locuzione proverbiale secondo la quale «le parole incitano, gli esempî trascinano». Che in fondo è la costante dei ricordi "accorati" dei suoi studenti Unical. Per me che sono stato un suo studente storicamente ritardatario, allievo fuori-corso, e poi per qualche anno collega, posso dire che MWB - di pochi anni più vecchio di me - mi ha avviato prima e accompagnato poi nella ricerca del godimento testuale. Insomma, mi ha insegnato a studiare, il primo che mi ha fatto capire che - come forse avrebbe detto lui - lo studio è dell'ordine dello scialo, dello scialamento, (oggi molto in voga tra i gruppi giovanili) "scialla": ed eccoci tornati barthesianamente al piacere e al godimento. MWB è da annoverare tra quelli che Ida Travi definisce "maestri indiretti", i vicini di aula, nella cui classe sei entrato per sbaglio: "buongiorno sig. Godard!", ma no era BMW. Fresco di laurea a Bologna con Eco, con me cominciò proprio dalla Traumdeutung, oggetto della sua tesi di laurea. Scriverà poi Fulvio Marone, un altro bravo che ci ha lasciato con sommo anticipo, "La Deutung, l’interpretazione, è la soluzione che Freud ha proposto per risolvere la querelle metodologica che, alla fine del XIX secolo, opponeva le Naturwissenschaften, le scienze della natura, alle Geisteswissenschaften, le scienze umane." (...) Lacan faceva due esempi: “sei la mia donna” e “sei il mio maestro”. Riconoscere l’altro come “la mia donna” o “il mio maestro” significa implicitamente e di ritorno riconoscere se stessi come “il tuo uomo” o “il tuo allievo”, dunque essere riconosciuti dall’Altro simbolico, all’interno del quale il soggetto è rappresentato da un significante presso un altro significante, che rinvia a tutta la catena significante. Se io sono allievo, è perché c’è un mio maestro che è a sua volta riconosciuto da un’istituzione, e dunque da tutto l’ordine simbolico in cui io e lui siamo situati. Altrimenti saremmo nella psicosi, laddove ci si può rappresentare come Napoleone, anche se non c’è nessuno che ci riconosca come tale. Fulvio Marone, VIII Convegno Nazionale FPL, Milano 1-2 giugno 2013, “Affetti/Effetti in psicoanalisi”, (Testo postumo letto  da Francesca Tarallo). 

La maestria - nel mio caso- fu indiretta anche in relazione al campo d'insegnamento. Che non era il cinema e nemmeno la fotografia, ma quello freudiano o - se vogliamo - lacaniano. E' noto che Lacan usava dire: per quanto mi riguarda resto freudiano (...voi definitevi come vi pare). BMW mi spinse prima tra le braccia di mamma RAI (come programmista-regista) poi tra quelle delle pratiche di scrittura, prima delle quali quella pubblicitaria. In vena di gratitudine e ringraziamenti tardivi, ricorderò anche Paolo Jedlowski che "intanto" mi cazziava per le parole tedesche - soprattutto quelle del lessico freudiano - che immancabilmente storpiavo.

Due ultime chicche del BMW copywriter: Reich & Roll (con tazebao annesso in zona Palazzo degli uffici a Cosenza, negli anni del Centro Wilhelm Reich); e poi, "Il doppio Baudrillard" . Un intervento con volantino diffuso al polifunzionale di Arcavacata in occasione della partecipazione a un convegno sul "doppio" di Jean Baudrillard, evocato tramite aequivocatio, "aequivoca verba" del doppio brodo Star.  Annota Giovanni Baule: "la traduzione di sistemi di valori attorno al prodotto di consumo tramite un processo di personificazione del prodotto, ora trasferito su un nuovo piano narrativo, quello della domesticità". Il messaggio pubblicitario esplicitamente suonava così: “Costa poco, rende molto, è buono – e poi è anche doppio -”. Ma il tema del doppio, all'Università della Calabria, era cogente per tanti motivi. Gli avvistamenti contemporanei in più città del Prof. Piperno (in odore di collusione col terrorismo) s'intrecciava con le bilocazioni di una veggente particolarmente venerata (Natuzza Evolo di Paravati) e con l'elaborazione centrata sull'iperrealtà, la simulazione, i simulacri, etc.

Così coi soliti guizzi di MWB,  Baudrillard all'Unical, di buon grado per due giorni si trasformò pure in un dado, quello del doppio brodo Star.

mercoledì 24 agosto 2022

Magari Giorgia le somigliasse un pochino!


 






I falsi pacifisti e altri pusillanimi

 



L’hanno scritto in tre – Eugenio Colorni, Ernesto Rossi, Altiero Spinelli – su un’isola dove erano confinati. È il manifesto di Ventotene, il progetto di un’Europa possibile e necessaria.

Era l’estate del ’41, molto preoccupante, per l’Italia, l’Europa, il mondo. Può aiutarci ad affrontare i tempi orribili nei quali siamo entrati.

 



 

(Elogio delle ammorsature)

 (...) Rileggiamo i primi articoli della nostra costituzione e fermiamoci sull’11 (quante volte l’avremo sentito?): “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. È il ripudio dell’ottuso sovranismo per una prospettiva più ampia, la sola che può dare speranza.

 



  Lo diceva bene Calamandrei: “Come gli architetti nel costruire parte di un edificio che dovrà esser compiuto nell’avvenire lasciano nella parete destinata a servire d’appoggio certe pietre sporgenti che essi chiamano ammorsature, cosi è concepibile che nella Costituzione italiana siano inserite, in direzione della federazione non ancor nata, cosiffatte ammorsature giuridiche, che potranno domani servire di raccordo e di collegamento con una più vasta costruzione internazionale: offerte unilaterali che mostreranno fin d’ora la nostra buona volontà, e che, funzionando oggi da invito e da esempio, potranno domani, quando il nostro richiamo sarà compreso, trasformarsi in intese e, via via, in aggregati sempre più solidi e più spaziosi “.

Mòrsa (enciclopedia Treccani)  


Nelle strutture in muratura costituite da due o più paramenti verticali affiancati, ogni pietra o mattone (detta anche ammorsatura o immorsatura) che per la sua maggiore lunghezza sporge dalle altre dello stesso corso esercitando un’azione di collegamento (o di ammorsamento) con il paramento contiguo; è un tipo di attacco che serve a dare una migliore continuità diminuendo il pericolo delle incrinature, che si possono formare lungo l’unione per l’assestamento della nuova costruzione.


L’aggregato più solido e spazioso è l’Europa. Non possiamo rinunciarvi per rinchiuderci in spazi nazionali asfittici e pericolanti, in balia di potenze economiche, politiche e militari che vediamo all’opera contro tutti i principi che abbiamo condiviso nella carta del Diritti fondamentali dell’Unione Europea: dignità, libertà, uguaglianza, solidarietà, cittadinanza, giustizia. Piero Calamandrei riuscì a cogliere, con una metafora architettonica alquanto singolare, questa tensione espansiva del testo costituzionale e, soprattutto, l’«ineludibilità storica dell’espansione dell’associazionismo internazionale» che, già alla fine degli anni ’40, era percepita come una scelta non più ritrattabile; il padre costituente, infatti, parlò di «ammorsature giuridiche» per indicare quelle disposizioni che, in un futuro, non ancora  immaginabile o comunque non pienamente configurabile negli anni in cui operò la Costituente, sarebbero potute «servire di raccordo e di collegamento con una più vasta costruzione internazionale».

[1] Questa visione sovrannazionale e comunitaria (e poi europea) del patto costituzionale rappresenta un’importante eredità per gli operatori giuridici e la classe politica di oggi; avendo a mente il formidabile percorso di integrazione europeo compiuto dal nostro paese, quelle ammorsature giuridiche, di cui parlava Calamandrei, sembrano aver raggiunto lo scopo prefissato. La previsione introdotta con la legge costituzionale n. 3 del 2001 s’inserisce in questa prospettiva generale, rappresentando, senza ombra di dubbio, un’evoluzione in senso migliorativo di quanto già auspicato dai padri costituenti.

Non a caso nel corso degli anni, dall'ammirazione reciproca nascerà una profonda amicizia, che farà dire a Bobbio di Calamandrei: «era quello che avrei voluto essere».

Succede però che l’ex premier Conte, nonostante l’infarinatura di cultura giuridica, ha poi rilanciato la sua richiesta su uno stop alle armi per Kiev: “Non credo che il governo italiano, dopo tre invii di forniture, si debba distinguere per continuare a riarmare l’Ucraina. Ci dicono gli esperti che l’Ucraina in questo momento è uno dei paesi più armati al mondo“. Non che da ciò che resta del M5S ci saremmo aspettati qualcosa di diverso. Miopia e cinismo li hanno nei cromosomi. “Né destra, né sinistra”, con quell’antico assunto di base hanno sempre camuffato opportunismo e qualunquismo di fondo, autoeleggendosi a movimento post-ideologico e transpolitico.

[2][ Gli artt. 10 e 11 Cost., il primo, statuendo la clausola internazionalistica e il secondo, accettando solennemente «limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni», rappresentano il “cuore” della scelta di apertura dei padri costituenti e la base del composito percorso intrapreso dall’Italia nel cammino d’integrazione europea e nel riconoscimento delle numerose Carte dei diritti elaborate in ambito internazionale (come, ad esempio, la CEDU o la Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato del 1951). Le cose dette finora e, soprattutto, ciò che si potrebbe dire ancora su questo tema vastissimo, confermano che il principio internazionale potrebbe essere considerato un principio supremo, tale da resistere al procedimento di revisione costituzionale, in virtù dell’impronta espansiva dell’art. 139 Cost., più volte menzionata. L’intangibilità della vocazione internazionale si può accertare, non solo dalla collocazione degli artt. 10 e 11 Cost. nella prima parte della Costituzione, ma dalla constatazione che il principio in esame è visceralmente collegato a Repubblica, che non può (o sicuramente non può più) essere considerata una Repubblica democratica solo intra moenia, ma anche europea; peraltro, le scelte compiute dall’Italia, dal Trattato di Roma del 1957 in avanti, potrebbero confermare che il diritto costituzionale italiano non può considerarsi avulso dal processo di integrazione europeo. Uno dei risultati di questo lungo e complesso cammino è stato la creazione di un sistema parlamentare euro-nazionale, nel quale il Governo italiano opera contemporaneamente in due diversi contesti istituzionali (quello nazionale e quello europeo); ciò non descrive solamente dall’esterno la nostra forma di governo (e quindi la forma di Stato), ma la alimenta, la integra, diventandone, così, un suo aspetto costitutivo.