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sabato 24 dicembre 2022

Tutti quegli uomini che un uomo intelligente e lucido sospetta di essere

 Dopo l'affettuoso e pepato commiato di Gianni Canova, critico cinematografico e rettore IULM, una stimata collega (non stiamo facendo dell'ironia) ci fa sapere che però "Marcello non ha mai voluto neanche tentare il concorso da ordinario. Era lui che non ne voleva sapere. Figurati che non caricava neanche le pubblicazioni sul sito del Miur".



 photo: Annarosa Macrì
(anche se Annarosa dice che non lo sa)



MWB con Gianfanco Donadio e Diego Mazzei



 “I DISTANTI”

Figure della presa di distanza.

 

Il poeta, l'artista, è da sempre un abitante della distanza. La storia della poesia un catalogo dei suoi luoghi: eccentrico, folle, fanciullino, dandy, snob, flaneur, dilettante.

Se la poesia riuscita è contraddistinta dall'assunzione di una distanza critica e che sappiamo triplice o forse quadrupla (come abbiamo visto poc'anzi, dalla lingua dei padri - nel senso di Bloom - dal poetese, dall'obbligo del grande stile e dei grandi temi ispiratori, dalle medietà e dalle mediocrità connesse), c'è pure - col dovuto rimbalzo - una distanza critica che s'incarna, modella i corpi, diventa gesto, s'inscena nel teatro del mondo, poi forse si stempera nei grandi numeri delle mode culturali. In ogni caso si tratta di esploratori di “territori stranieri interni”; espressione freudiana così mis-tradotta da Habermas, forse per riferirsi alla Unheimlickeit.

A sentire Ermanno Krumm (Il ritorno del Flåneur, Boringhieri, 1983) si abbraccia “una vasta porzione di testualità vagabonda che va da Montale a Zanzotto”. Per Frediano Sessi (‘Alfabeta’, n.67), è Cesare Ruffato, con Minusgrafie (1978) e Parola bambola (1983), il campione della “conflagrazione silenziosa della lingua”, del vagabondaggio tra significante e significato; ma noi gli preferiamo i meridionalissimi botti bonazziani.

Valentino Zeichen (forse non a caso emigrato da Fiume a Roma) - tra lo snob, il dandy e il flaneur - persegue invece una poesia che di distanze ne mette in gioco di molteplici. Come stile, a volte come spocchia, sempre come disincanto e neutralizzazione del pathos, come cinismo e ironia della frase, della punteggiatura e degli enjambements.

 

“(...)

A ogni inizio di stagione,

fuori della mitica caverna

sfilano le lunghe sagome

e le preferenze degli amanti

vanno alle collezioni autunno-inverno

che assottigliano le figure;

seviziate dagli stilisti, poiché

neanche nel mondo degli spiriti

vengono tollerati i grassi".

 

Con Vivian Lamarque poi, la distanza viene propriamente assunta ed elaborata. In “Poesie dando del Lei” la distanza è la fessura attraverso cui passa la grazia:

“(...)

basta distanza

varchiamo la prego

il confine della stanza

(...)

siamo lontani di cuscini

ma di anime siamo vicini”.

 

Il Lei è qui forse la distanza tra il Tu e l'Io; il Tu, a cui si dà rigorosamente del Lei, sembra essere il destinatario di numerose suppliche, esortazioni e ammonimenti:

 

“La mia superficie è felice,

ma venga venga a vedere

sotto la vernice”.

 

Oppure a una distanza che, da Satie a “Teresino”, viene ad essere cosi semplicemente siglata:

 

"Alberi divisi lontani

in segno di saluto svettiamo

ai confini del prato,

ci riconosciamo".

 

La grazia della distanza, senza perdersi e aggiungendo l'umorismo delle permutazioni-declinazioni, si fa matematica nel "Blues pronominale" di Marcello W. Bruno (‘TALVIN’, n.0, 1981):

 

"Abbiamo parlato in macchina

della violenza pronominale

- DATEMI DEL VOI

- MI DIA DEL VOI

- DAMMI DEL VOI

abbiamo detto: un’asimmetria pronominale

rivela tra due soggetti un rapporto di potere

- DATEMI DEL LEI

- MI DIA DEL LEI

- DAMMI DEL LEI

i padroni hanno il tu materialista

i servi hanno il tu ricattatorio

- DATEMI DEL TU

- MI DIA DEL TU

- DAMMI DEL TU

ma tu non darmi del tu

dammi del vino.

 

Con Milo De Angelis (Distante un padre, Mondadori, 1989), la questione diventa molto più complessa e inevitabilmente meno godibile.

“Alla testa ondeggiante nel mirino

preferimmo una

malattia di gradi freddi e sottrazioni: e

odio anch'essa, lo so, ma questo

fuscello si fa idea inseguendola per

un anno di limbo. E noi, applausi

scoloriti, abitammo la notte,

la sfuggente, meravigliosa pedana. Penetrazione

di sole in grano, che è madre. Superstite

che si chiama padre."

Metafore ardite, a volte riuscite (“appalusi scoloriti”) a volte del poetese più abusato (“abitammo la notte”), equivoci mal riusciti da un sovrappiù di enjambements, la supponenza o - se si preferisce, più bonariamente - la coscienza del poeta di “un angolo etico che portiamo intatto”, rischiano di farci perdere di vista la questione più importante e in fondo inesplorata, così magnificamente racchiusa nel sintagma che da il titolo alla raccolta: distante un padre. Padre e distanza che, pur non dovendola far necessariamente da padrone, si trovano a operare non certo da semplici “superstiti”. Il padre si fa metro, vien da dire metrìa, come viene specificato nell'elaborazione, avviata nel 1982 dal collettivo de “I1 piccolo Hans”, intorno al dilettante. Sergio Finzi, rileggendo Savinio, compie una piccola apologia del dilettantismo per cui “basta anche solo una seconda arte per esser salvi dall'inebetimento nel quale si finisce a praticarne una sola”. Così, splendidi dilettanti risultano Leonardo da Vinci, Benvenuto Cellini, orafo e scultore, J.J.Rousseau, Jules Michelet, che fa 1'entomologo per riposarsi dagli studi storici, etc. Che è in fondo ciò the più affascina in Indiana Jones: archeologo e 007. Questa magnifica condizione di superamento della professionalità (con l'annesso fantasma di padronanza) sembra originarsi dallo scarto dal mestiere del padre, dalla distanza “agonistica” (con un lemma di Harold Bloom) dal padre. Ecco, qui suonerebbe bene quel “distante un padre”.

 Giorgio Celli, nel suo Le farfalle di Giano (Feltrinelli, 1989), cita il caso di un altro grande outsider e dilettante, l'abate Gregor Mendel - senza saperlo - uno dei massimi biologi sperimentali di tutti i tempi. Mai ebbe conferma della verità e dell'efficacia delle sue ricerche, del suo dilettantismo. “...16 anni dopo (la sua morte) tre biologi riscoprono le sue scoperte e gli rendono pienamente giustizia. La gloria, si sa, come ha scritto Balzac, è il sole dei morti” (Celli, p.186).

Molto ci alletta, ma in questa sede risulterebbe depistante, la diatriba dilettantismo/professionismo; con una gran voglia di confutare la tesi di Stanley Fish per cui - chissà perché - l'antiprofessionismo sarebbe una forma aggiornata della tradizionale ostilità alla retorica. Ci limiteremo invece a indicare nel dilettantismo, nel senso e negli esempi sopracitati, una positiva condizione di superamento della professionalità; una posizione lontana da qualsiasi forma di improvvisazione, di spontaneismo, e di hobbysmo, che nel diletto trova la garanzia di riuscita di una presa di distanza. Figura del salto in avanti e dello scarto rispetto alle fantasmatiche di padronanza che sempre costellano il professionismo.

MC


Bruno La Vergata, logotipo e materiali didattici del
Consorzio per l'Università a Distanza


Luci della distanza.

Tutti quegli uomini che un uomo intelligente e lucido sospetta di essere

 

La distanza da noi stessi si misura con la morte

e con la fine di un segno che resta come cometa a indicare la strada

Alessandro Chidichimo

 

“Signore e signori... produco lavori teatrali a Broadway, ne curo anche la regia. Sono attore di teatro. Scrivo, dirigo e recito in alcune trasmissioni radiofoniche. Suono il violino e il piano. Dipingo, disegno e pubblico libri. Sono romanziere e anche un mago. Non è notevole che io sia così tante persone e voi tanto poche?". 

                                                                                              Orson Welles 

 

 

La poesia di Jabès della distanza è l'apoteosi. Per più motivi. Per più ingredienti. L'erranza, i rabbini, i1 libro, il deserto, il vento. Nella sua scrittura - come nella psicanalisi più riuscita - è riconoscibile “la sola testimonianza di che cosa sia cercare, nella prossimità, la traccia di se stessi, cercare, nella prossimità, la più grande distanza” (Ettore Perrella, Il tempo etico, Edizioni Biblioteca dell’Immagine, 1986, p.16).

 

“Una pagina bianca è un formicolio di passi sul punto di ritrovare le loro orme... Dov’è il cammino? Un cammino è sempre da trovare. Un foglio bianco è pieno di cammini...La distanza è luce, lo spazio di tempo in cui tu penserai che non ci sono frontiere. Così, noi siamo la distanza. (...) Ciò che chiami “distanza” non è che il tempo di una inspirazione, di una espirazione. Tutto l'ossigeno indispensabile all'uomo è nei suoi polmoni. Vuoto è lo spazio della vita. (...) La parola del viaggio è schiava del vento. (...) Tu sei qui, ma il luogo è così vasto che essere l'uno accanto all'altro è già essere tanto lontani da non riuscire né a vederci né a sentirci. (...) Fanciullo, le lettere del tuo nome sono così distanti l’una dall'altra che sei un fuoco di festa nella notte stellata.”

Friabilità del canto, respiro, vento e cenere che rintracciamo in Chateaubriand: “... a chi appartengono quelle ceneri? I venti non ne sanno nulla”.

Contrappuntato da Paul Klee: “Nessuna meraviglia in quest'aria di scirocco”.

Vento e sapere. Connessione splendidamente colta in un passaggio sulla 'bora' da Italo Svevo, che - a posteriori - possiamo considerare il miglior commento all'opera jabesiana. “... Si ha il torto di considerarla come una cosa sola mentre si compone di migliaia di soffi che i naturalisti sanno poiché coincidono in tempo e spazio ma dei quali, garantisco, uno non sa dell'altro. (...) Chi prenderebbero in giro? Se non conoscono nessuno, quei nomadi, non conoscendosi neppure tra di loro?”.

Pure di Montale è la consapevolezza che “una distanza ci divide” (dove quel ‘ci’ è tentatore). Una distanza che in un altro passo è resa ‘siderale’ dalla terza dimensione. Distanza, sempre sotto le insegne del vento “ch'entra nel pomario/ vi rimena l'ondata della vita” e “che nel cuore soffia”.

E se i venti boreali non si conoscono neppure tra loro, analoga supposizione è valida per i rabbini immaginari di Jabès e per il bagaglio di persone di Pessoa. Intersoggettualità come intertestualità. Testi co-esistenti e contemporaneamente votati alla reciproca in-conoscenza.

L'eteronimia (di Pessoa) non è altro - sostiene Tabucchi - che la vistosa traduzione in letteratura di tutti quegli uomini che un uomo intelligente e lucido sospetta di essere. Questione di cui Orson Welles mostrava grande e ironica consapevolezza. “Signore e signori... produco lavori teatrali a Broadway, ne curo anche la regia. Sono attore di teatro. Scrivo, dirigo e recito in alcune trasmissioni radiofoniche. Suono il violino e il piano. Dipingo, disegno e pubblico libri. Sono romanziere e anche un mago. Non è notevole che io sia così tante persone e voi tanto poche?".

E prim'ancora di Welles, è il genio illuminante di Novalis: “Il genio è una persona veramente sintetica (...) ogni persona si suddivide in più persone e la vera analisi della persona produce solo persone”.

Un enunciato - quest'ultimo - strutturato alla maniera di Sraffa: produzione di persone a mezzo di persone.

Il vento indica in qualche modo il tragitto delle parole, cerca di dire qualcosa su come siano orientate, da dove vengano, cosa portino seco. La congerie, la panoplia di venti boreali di Svevo, lo splitting jabesiano dei mille rabbini immaginari, le cento personalità di Pessoa (“il baule pieno di gente” - come evidenziava giustamente Tabucchi), il multiforme ingegno di Welles, e anche i personaggi pirandelliani, non sono forse la stessa cosa? Rappresentanti del clivaggio, dello sfaldamento del soggetto, in particolare del soggetto della scrittura. “Sii plurale come l'universo” esortava Pessoa. “Credevo di essere di più” annota Lautréamont, per il quale l'infinità dell'io è, più che un punto di partenza, una conquista violenta e obbligata al fine di sottrarsi alla condizione di angustia e di limite.

Il ‘successo’ di una vita è in fondo questo: riconoscere, prim'ancora di mantenere, le distanze tra queste persone, tra questi nomi, tra questi venti, senza mai lasciare che si allontanino troppo o che marcino con ritmi troppo diversi. Che vi sia contrappunto, che vi sia controcanto, questo sì; ma che non si rinunci del tutto a un pur scalcinato direttore d'orchestra. Polifonia non schizofrenia, come - al contrario - equivocarono anni fa Deleuze e Guattari con il loro elogio del molecolare e della schizoanalisi. Si potrà dire che il tema del clivaggio è tutto romantico. Ciononostante mi limito a constatarne la verità e la persistenza da un punto di vista - diciamo - pragmatico. Con Schlegel, non capita d'imbattersi ancora oggi, anche se sempre più raramente, in libri “nei quali anche i cani si appellano all'infinito?” Quanto a Jabès, anche se l'accostamento potrà sembrare cinico e paradossale (né più né meno come i “Kant con Sade” dello stesso francese terribile), è Jacques Lacan che, nel massimo di lontananza di cultura e amicizia, lui che non era Blanchot, Derrida o Scalia, a enunciarne la cifra. Così per caso, per la solita folgorazione, per la solita irrefrenabile tendenza dei suoi enunciati a dire il vero, in materia del dire e dello scrivere, insomma in materia di soggettività. “Poiché se non per il fatto che l'Ebreo dopo il ritorno da Babilonia è colui che sa leggere, cioè che prende le distanze dalla lettera attraverso la propria parola, trovando in essa l'intervallo precisamente perché si avvale di un'interpretazione” (“Scilicet”, p.176).

Così può capitare che al Cubo 17 (o era il 18?) del ponte dell’Unical, ancora di recente fossero di casa un paio di signori in grado di guardare, vedere, leggere e scrivere. La genialità è cosa semplice, pura sintesi, ma ha da essere riconosciuta. E alle nostre latitudini il mestiere del talent scout e più in generale un reclutamento non miope della classe dirigente e dei docenti universitari resta una prassi sconosciuta. Le cose non vanno meglio a livello nazionale: capaci come siamo di mandare a casa un italiano stimato nel mondo intero, allievo – tra l’altro - di Federico Caffè.

 (Ovviamente mi stavo riferendo a Mario Draghi)

Questo testo è dedicato a Salvatore Piermarini (fotografo, bozzettista, inscaper, visualizer, collaboratore e fratello del prof. Vito Teti) e a Marcello Walter Bruno (semiologo, copywriter, sceneggiatore, saggista, studioso di cinema e di fotografia).

Il termine “inscape”  viene usato dal poeta inglese Gerard Manley Hopkins, per definire quel complesso di caratteristiche che conferiscono unicità ed esclusività ad un'esperienza individuale.

 




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