Dopo l'affettuoso e pepato commiato di Gianni Canova, critico cinematografico e rettore IULM, una stimata collega (non stiamo facendo dell'ironia) ci fa sapere che però "Marcello non ha mai voluto neanche tentare il concorso da ordinario. Era lui che non ne voleva sapere. Figurati che non caricava neanche le pubblicazioni sul sito del Miur".
“I DISTANTI”
Figure della presa
di distanza.
Il poeta, l'artista,
è da sempre un abitante della distanza. La storia della poesia un catalogo dei
suoi luoghi: eccentrico, folle, fanciullino, dandy, snob, flaneur, dilettante.
Se la poesia
riuscita è contraddistinta dall'assunzione di una distanza critica e che
sappiamo triplice o forse quadrupla (come abbiamo visto poc'anzi, dalla lingua
dei padri - nel senso di Bloom - dal poetese, dall'obbligo del grande stile e
dei grandi temi ispiratori, dalle medietà e dalle mediocrità connesse), c'è
pure - col dovuto rimbalzo - una distanza critica che s'incarna, modella i
corpi, diventa gesto, s'inscena nel teatro del mondo, poi forse si stempera nei
grandi numeri delle mode culturali. In ogni caso si tratta di esploratori di
“territori stranieri interni”; espressione freudiana così mis-tradotta da
Habermas, forse per riferirsi alla Unheimlickeit.
A sentire Ermanno
Krumm (Il ritorno del Flåneur,
Boringhieri, 1983) si abbraccia “una vasta porzione di testualità vagabonda che
va da Montale a Zanzotto”. Per Frediano Sessi (‘Alfabeta’, n.67), è Cesare
Ruffato, con Minusgrafie (1978) e Parola bambola (1983), il
campione della “conflagrazione silenziosa della lingua”, del vagabondaggio tra
significante e significato; ma noi gli preferiamo i meridionalissimi botti
bonazziani.
Valentino Zeichen
(forse non a caso emigrato da Fiume a Roma) - tra lo snob, il dandy e il
flaneur - persegue invece una poesia che di distanze ne mette in gioco di
molteplici. Come stile, a volte come spocchia, sempre come disincanto e
neutralizzazione del pathos, come cinismo e ironia della frase, della
punteggiatura e degli enjambements.
“(...)
A ogni inizio di
stagione,
fuori della mitica
caverna
sfilano le lunghe
sagome
e le preferenze
degli amanti
vanno alle
collezioni autunno-inverno
che assottigliano le
figure;
seviziate dagli
stilisti, poiché
neanche nel mondo
degli spiriti
vengono tollerati i
grassi".
Con Vivian Lamarque
poi, la distanza viene propriamente assunta ed elaborata. In “Poesie dando del
Lei” la distanza è la fessura attraverso cui passa la grazia:
“(...)
basta distanza
varchiamo la prego
il confine della
stanza
(...)
siamo lontani di
cuscini
ma di anime siamo
vicini”.
Il Lei è qui forse
la distanza tra il Tu e l'Io; il Tu, a cui si dà rigorosamente del Lei, sembra
essere il destinatario di numerose suppliche, esortazioni e ammonimenti:
“La mia superficie è
felice,
ma venga venga a
vedere
sotto la vernice”.
Oppure a una
distanza che, da Satie a “Teresino”, viene ad essere cosi semplicemente
siglata:
"Alberi divisi
lontani
in segno di saluto
svettiamo
ai confini del
prato,
ci
riconosciamo".
La grazia della
distanza, senza perdersi e aggiungendo l'umorismo delle
permutazioni-declinazioni, si fa matematica nel "Blues pronominale"
di Marcello W. Bruno (‘TALVIN’, n.0, 1981):
"Abbiamo
parlato in macchina
della violenza
pronominale
- DATEMI DEL VOI
- MI DIA DEL VOI
- DAMMI DEL VOI
abbiamo detto: un’asimmetria
pronominale
rivela tra due
soggetti un rapporto di potere
- DATEMI DEL LEI
- MI DIA DEL LEI
- DAMMI DEL LEI
i padroni hanno il
tu materialista
i servi hanno il tu
ricattatorio
- DATEMI DEL TU
- MI DIA DEL TU
- DAMMI DEL TU
ma tu non darmi del
tu
dammi del vino.
Con Milo De Angelis
(Distante un padre, Mondadori, 1989), la questione diventa molto più
complessa e inevitabilmente meno godibile.
“Alla testa
ondeggiante nel mirino
preferimmo una
malattia di gradi
freddi e sottrazioni: e
odio anch'essa, lo
so, ma questo
fuscello si fa idea
inseguendola per
un anno di limbo. E
noi, applausi
scoloriti, abitammo
la notte,
la sfuggente,
meravigliosa pedana. Penetrazione
di sole in grano,
che è madre. Superstite
che si chiama padre."
Metafore ardite, a
volte riuscite (“appalusi scoloriti”) a volte del poetese più abusato
(“abitammo la notte”), equivoci mal riusciti da un sovrappiù di enjambements,
la supponenza o - se si preferisce, più bonariamente - la coscienza del poeta
di “un angolo etico che portiamo intatto”, rischiano di farci perdere di vista
la questione più importante e in fondo inesplorata, così magnificamente
racchiusa nel sintagma che da il titolo alla raccolta: distante un padre. Padre
e distanza che, pur non dovendola far necessariamente da padrone, si trovano a
operare non certo da semplici “superstiti”. Il padre si fa metro, vien da dire metrìa,
come viene specificato nell'elaborazione, avviata nel 1982 dal collettivo de
“I1 piccolo Hans”, intorno al dilettante. Sergio Finzi, rileggendo Savinio,
compie una piccola apologia del dilettantismo per cui “basta anche solo una
seconda arte per esser salvi dall'inebetimento nel quale si finisce a
praticarne una sola”. Così, splendidi dilettanti risultano Leonardo da Vinci,
Benvenuto Cellini, orafo e scultore, J.J.Rousseau, Jules Michelet, che fa
1'entomologo per riposarsi dagli studi storici, etc. Che è in fondo ciò the più
affascina in Indiana Jones: archeologo e 007. Questa magnifica condizione di
superamento della professionalità (con l'annesso fantasma di padronanza) sembra
originarsi dallo scarto dal mestiere del padre, dalla distanza “agonistica”
(con un lemma di Harold Bloom) dal padre. Ecco, qui suonerebbe bene quel
“distante un padre”.
Giorgio Celli, nel suo Le farfalle di Giano (Feltrinelli, 1989), cita il caso di un altro grande outsider e dilettante, l'abate Gregor Mendel - senza saperlo - uno dei massimi biologi sperimentali di tutti i tempi. Mai ebbe conferma della verità e dell'efficacia delle sue ricerche, del suo dilettantismo. “...16 anni dopo (la sua morte) tre biologi riscoprono le sue scoperte e gli rendono pienamente giustizia. La gloria, si sa, come ha scritto Balzac, è il sole dei morti” (Celli, p.186).
Molto ci alletta, ma
in questa sede risulterebbe depistante, la diatriba dilettantismo/professionismo;
con una gran voglia di confutare la tesi di Stanley Fish per cui - chissà
perché - l'antiprofessionismo sarebbe una forma aggiornata della tradizionale
ostilità alla retorica. Ci limiteremo invece a indicare nel dilettantismo, nel senso
e negli esempi sopracitati, una positiva condizione di superamento della
professionalità; una posizione lontana da qualsiasi forma di improvvisazione,
di spontaneismo, e di hobbysmo, che nel diletto trova la garanzia di riuscita
di una presa di distanza. Figura del salto in avanti e dello scarto rispetto
alle fantasmatiche di padronanza che sempre costellano il professionismo.
MC
Luci della distanza.
Tutti quegli uomini che un uomo intelligente e lucido sospetta di essere
La
distanza da noi stessi si misura con la morte
e
con la fine di un segno che resta come cometa a indicare la strada
Alessandro Chidichimo
“Signore e signori... produco lavori teatrali a Broadway, ne curo anche la regia. Sono attore di teatro. Scrivo, dirigo e recito in alcune trasmissioni radiofoniche. Suono il violino e il piano. Dipingo, disegno e pubblico libri. Sono romanziere e anche un mago. Non è notevole che io sia così tante persone e voi tanto poche?".
Orson Welles
La
poesia di Jabès della distanza è l'apoteosi. Per più motivi. Per più
ingredienti. L'erranza, i rabbini, i1 libro, il deserto, il vento. Nella sua
scrittura - come nella psicanalisi più riuscita - è riconoscibile “la sola
testimonianza di che cosa sia cercare, nella prossimità, la traccia di se
stessi, cercare, nella prossimità, la più grande distanza” (Ettore Perrella, Il tempo etico, Edizioni Biblioteca
dell’Immagine, 1986, p.16).
“Una
pagina bianca è un formicolio di passi sul punto di ritrovare le loro orme... Dov’è
il cammino? Un cammino è sempre da trovare. Un foglio bianco è pieno di
cammini...La distanza è luce, lo spazio di tempo in cui tu penserai che non ci
sono frontiere. Così, noi siamo la distanza. (...) Ciò che chiami “distanza”
non è che il tempo di una inspirazione, di una espirazione. Tutto l'ossigeno
indispensabile all'uomo è nei suoi polmoni. Vuoto è lo spazio della vita. (...)
La parola del viaggio è schiava del vento. (...) Tu sei qui, ma il luogo è così
vasto che essere l'uno accanto all'altro è già essere tanto lontani da non
riuscire né a vederci né a sentirci. (...) Fanciullo, le lettere del tuo nome
sono così distanti l’una dall'altra che sei un fuoco di festa nella notte
stellata.”
Friabilità
del canto, respiro, vento e cenere che rintracciamo in Chateaubriand: “... a
chi appartengono quelle ceneri? I venti non ne sanno nulla”.
Contrappuntato
da Paul Klee: “Nessuna meraviglia in quest'aria di scirocco”.
Vento
e sapere. Connessione splendidamente colta in un passaggio sulla 'bora' da
Italo Svevo, che - a posteriori - possiamo considerare il miglior commento
all'opera jabesiana. “... Si ha il torto di considerarla come una cosa sola
mentre si compone di migliaia di soffi che i naturalisti sanno poiché
coincidono in tempo e spazio ma dei quali, garantisco, uno non sa dell'altro.
(...) Chi prenderebbero in giro? Se non conoscono nessuno, quei nomadi, non
conoscendosi neppure tra di loro?”.
Pure
di Montale è la consapevolezza che “una distanza ci divide” (dove quel ‘ci’ è
tentatore). Una distanza che in un altro passo è resa ‘siderale’ dalla terza
dimensione. Distanza, sempre sotto le insegne del vento “ch'entra nel pomario/
vi rimena l'ondata della vita” e “che nel cuore soffia”.
E
se i venti boreali non si conoscono neppure tra loro, analoga supposizione è
valida per i rabbini immaginari di Jabès e per il bagaglio di persone di
Pessoa. Intersoggettualità come intertestualità. Testi co-esistenti e
contemporaneamente votati alla reciproca in-conoscenza.
L'eteronimia
(di Pessoa) non è altro - sostiene Tabucchi - che la vistosa traduzione in
letteratura di tutti quegli uomini che un uomo intelligente e lucido sospetta
di essere. Questione di cui Orson Welles mostrava grande e ironica
consapevolezza. “Signore e signori... produco lavori teatrali a Broadway, ne
curo anche la regia. Sono attore di teatro. Scrivo, dirigo e recito in alcune
trasmissioni radiofoniche. Suono il violino e il piano. Dipingo, disegno e
pubblico libri. Sono romanziere e anche un mago. Non è notevole che io sia così
tante persone e voi tanto poche?".
E
prim'ancora di Welles, è il genio illuminante di Novalis: “Il genio è una
persona veramente sintetica (...) ogni persona si suddivide in più persone e la
vera analisi della persona produce solo persone”.
Un
enunciato - quest'ultimo - strutturato alla maniera di Sraffa: produzione di
persone a mezzo di persone.
Il
vento indica in qualche modo il tragitto delle parole, cerca di dire qualcosa
su come siano orientate, da dove vengano, cosa portino seco. La congerie, la
panoplia di venti boreali di Svevo, lo splitting jabesiano dei mille rabbini
immaginari, le cento personalità di Pessoa (“il baule pieno di gente” - come
evidenziava giustamente Tabucchi), il multiforme ingegno di Welles, e anche i
personaggi pirandelliani, non sono forse la stessa cosa? Rappresentanti del
clivaggio, dello sfaldamento del soggetto, in particolare del soggetto della
scrittura. “Sii plurale come l'universo” esortava Pessoa. “Credevo di essere di
più” annota Lautréamont, per il quale l'infinità dell'io è, più che un punto di
partenza, una conquista violenta e obbligata al fine di sottrarsi alla
condizione di angustia e di limite.
Il ‘successo’ di una vita è in fondo questo:
riconoscere, prim'ancora di mantenere, le distanze tra queste persone, tra
questi nomi, tra questi venti, senza mai lasciare che si allontanino troppo o
che marcino con ritmi troppo diversi. Che vi sia contrappunto, che vi sia
controcanto, questo sì; ma che non si rinunci del tutto a un pur scalcinato
direttore d'orchestra. Polifonia non schizofrenia, come - al contrario -
equivocarono anni fa Deleuze e Guattari con il loro elogio del molecolare e
della schizoanalisi. Si potrà dire che il tema del clivaggio è tutto romantico.
Ciononostante mi limito a constatarne la verità e la persistenza da un punto di
vista - diciamo - pragmatico. Con Schlegel, non capita d'imbattersi ancora
oggi, anche se sempre più raramente, in libri “nei quali anche i cani si
appellano all'infinito?” Quanto a Jabès, anche se l'accostamento potrà sembrare
cinico e paradossale (né più né meno come i “Kant con Sade” dello stesso
francese terribile), è Jacques Lacan che, nel massimo di lontananza di cultura
e amicizia, lui che non era Blanchot, Derrida o Scalia, a enunciarne la cifra.
Così per caso, per la solita folgorazione, per la solita irrefrenabile tendenza
dei suoi enunciati a dire il vero, in materia del dire e dello scrivere,
insomma in materia di soggettività. “Poiché se non per il fatto che l'Ebreo
dopo il ritorno da Babilonia è colui che sa leggere, cioè che prende le distanze
dalla lettera attraverso la propria parola, trovando in essa l'intervallo
precisamente perché si avvale di un'interpretazione” (“Scilicet”, p.176).
Così può capitare che al Cubo 17 (o era il 18?) del ponte dell’Unical, ancora di recente fossero di casa un paio di signori in grado di guardare, vedere, leggere e scrivere. La genialità è cosa semplice, pura sintesi, ma ha da essere riconosciuta. E alle nostre latitudini il mestiere del talent scout e più in generale un reclutamento non miope della classe dirigente e dei docenti universitari resta una prassi sconosciuta. Le cose non vanno meglio a livello nazionale: capaci come siamo di mandare a casa un italiano stimato nel mondo intero, allievo – tra l’altro - di Federico Caffè.
(Ovviamente mi stavo riferendo a Mario Draghi)
Questo testo è dedicato a Salvatore Piermarini (fotografo,
bozzettista, inscaper, visualizer, collaboratore
e fratello del prof. Vito Teti) e a Marcello
Walter Bruno (semiologo, copywriter, sceneggiatore, saggista, studioso di
cinema e di fotografia).
Il
termine “inscape” viene usato dal
poeta inglese Gerard Manley Hopkins, per definire quel complesso di
caratteristiche che conferiscono unicità ed esclusività ad un'esperienza individuale.
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