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giovedì 28 maggio 2015

John Trumper: L’albanese lingua di confine, lingua di confini: dai Balcani al Mediterraneo





Il primo pensiero, nel ringraziare chi ha organizzato questa lezione e chi vi partecipa, è che, essendo io qui da fin quasi dagli inizi di questa università, ho avuto modo di conoscere moltissimi dei presenti: da studenti, da tecnici, da giovani ricercatori e ora ci ritroviamo professori, direttori, perfino rettori. Questo è il bello, e il brutto, di appartenere ad una Comunità come la nostra; si finisce per diventare parte della sua Memoria. Prima di iniziare la lezione vera e propria, mi concedo una brevissima analisi testuale sulla locandina: il saluto, non è un commiato.

Ad esempio, questa settimana, mi aspetta un incontro sulla superstizione, dalla prospettiva etnolinguistica e, le domeniche, alcune passeggiate toponomastiche in quel di Grimaldi e di Dipignano. Si deve essere sparsa la notizia che sono in pensione e molti amici e colleghi, un po’ dovunque, cercano di riempire quelle che forse immaginano come vuote giornate, chiedendomi di andare a parlare di quello che so. E questo mi porta a chiosare la parola Lezione; ora vanno di moda le presentazioni, i festival, gli incontri; io preferisco fare lezione: parola polisemica e sdrucciolevole. ‘Dare una lezione, impartire una lezione’, sono locuzioni che contengono una velata minaccia e un’impressione di supponenza. Del resto, tenere conferenze, spesso significa informare gli astanti delle proprie opinioni sul mondo e sulle cose, si spera con un accettabile livello linguistico (io sono straniero), con misurata retorica e piacevole disposizione. Quando così non è, alla noia si aggiunge il fastidio. Insegnare, facendo lezione, invece, è l’atto più democratico del mondo: è condividere ciò che si sa, le nozioni, altra parola ingiustamente vituperata, e proporre un ‘discorso sul metodo’. Gli artigiani, che hanno costruito le cose belle e utili che ci circondano, non facevano conferenze: insegnavano a chi doveva venire dopo di loro, perché il sapere non si perdesse. Non c’è competizione: la migliore esposizione di sé è nella trasmissione e nella preservazione di ciò a cui si è dedicata la propria vita lavorativa. Nemmeno quando si attribuiscono il tuo lavoro, in fondo, ti fanno un danno, se non all’amor proprio: non si ruba, infatti, che ciò a cui si attribuisce valore. Chiudendo con un ricordo che associa gli studiosi che abbiamo conosciuto e che secondo questo modello hanno operato ed operano, penso gratamente a Padre Solano, ma riservo un posto particolare ad Eric Hamp, e a sua moglie Margot, lui è il mio modello di pensionato. Le vasche a Corso Mazzini, possono ancora aspettare.



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